tratto dal catalogo “Sospensioni”
- giustificazione -
Tutta colpa di un gancio, di un anello.
di Antonio Bobò
P
roprio in tempi recenti, vissuti e come da sempre legati alle mie osservazioni esistenziali, sentendo la necessità di ancora più attente analisi, non dichiarata ma come in un silenzioso assenso, partecipavo alle persone a me vicine la sabbatica esigenza di una "sospensione", di una fermata, una frazione temporale dove potermi parcheggiare, proprio come una sospensione a divinis a interdirmi, a privarmi del mio specifico magistero. Sospensione, parola che ha in sé precisa la motivazione "dubbio", per "incertezza", quindi posizionante nell'attesa e nella speranza di una risoluzione. Conforto per poi superare i sempre più fitti ostacoli immobilizzanti. Vincolarne il senso al principio chimico, che mi possa aiutare nella mia messa in opera, alla separazione degli elementi in contrasto. Insomma poter distinguere le sottili trasfigurazioni che alimentano le mie preoccupazioni. Gli avversi eventi, personali ma soprattutto sociali e ideologici, incalzanti, a tutt'oggi aspettano risposte. L'esercizio dell'arte soprattutto necessita di partecipazione, e il ruolo dell'artista mi sembra sia quello di rimettersi costantemente in gioco a ogni giro di calendario. Tutto va prima sedimentato fuori dall'operare, lontano dal "cavalletto". Niente atteggiamenti, nessuna replica meccanica, ma coerenza a una scelta di vita.
In questa mia situazione di stallo ho ricevuto l'invito per una mostra personale dalla Carismi di San Miniato, richiesta inusuale per la sua ubicazione in uno spazio non deputato alle esposizioni. L'allestimento riguardava difatti l'agenzia di Livorno. L'invito mi giungeva per voce di Margherita Casazza del Centro Toscano Edizioni, su suggerimento critico di Nicola Micieli. Pur sapendo di non poter affrontare nessun impegno a progetto, per la suddetta mia "aspettativa", prima di declinare accettavo un sopralluogo.
Appena sul canale, uno dei tanti disposti a labirinto dal mare aperto fino all'interno della città, sul fosso come si dice a Livorno, confinante con la Fortezza Nuova, nucleo natale della città, in massiccia architettura mi si presenta questa costruzione, forse, chissà, una casermetta o un deposito di merci, sicuramente del XVII secolo. Il suo interessante aspetto esterno e tutte le più cordiali attenzioni non sarebbero state però sufficienti per un mio assenso espositivo, ma entrati, ecco che il mio occhio trova un inciampo e lo riconosce come un gancio, o meglio un anello. In alto, al centro del soffitto voltato a più crociere, dove le 4 vele delle pseudocupole andavano a chiudersi nei punti esatti delle chiavi di volta. Nella ristrutturazione del soffitto era stato mantenuto quell'anello in ferro robusto, dove in tempi antichi veniva sospeso il "lampadario". Allora il mio occhio, svelto, corre su, dalle colonne lungo i costoloni fino agli
incroci di vela, per poi ridiscendere e ancora risalire; come cavallo sulla scacchiera, andava veloce percorrendo a numerare nella ripetizione delle volte, gli anelli disponibili. Agganciare. Issare. Sospendere. Ecco, potevo accettare!
Non sarebbe stato necessario lavorare, tradire la mia "sospensione", ma sarebbe stato sufficiente ricondurre all'opportunità dell'anello, quanto espresso con le parole e soprattutto approfittare di una possibile metafora visiva. In conferenza stampa potevo quindi anticipare: «Le piccole occasioni a volte ci permettono di rinnovarci nelle didascalie. Questa mi offre l'opportunità di ulteriori riflessioni, dove il pensiero sicuramente mi confermerà le più recenti analisi sui tempi nostri reali, chiusi in un giudizio di imbarbarimento, diffuso e progressivo. Allora questa quiete, questa "sospensione" riflessiva, non dovrà trasformarsi in un pericoloso stallo, In una assenza. Sollevare e legare in alto le mie opere, vorrei fosse come un prendere le distanze. Una sospensione aerea delle idee e delle valutazioni, insomma un modo per ulteriormente interrogarmi. Tutto questo, nel pensiero mi sosterrà che da lassù le cose da me appese ritorneranno, annullando sospensioni ed inerzie, per nuove, collettive, decise agitazioni».
In questi miei 45 anni di attività artistica ho lavorato e sempre proposto le mie opere per cicli e nel mio antologico ripercorrere gli anni mi sono potuto risoffermare su quelle che ben avrebbero supportato questa nuova lettura didascalica. Opere che anche nel loro esordio venivano proposte in alto, spesso in composte installazioni aeree. Opere che pur nella loro esiguità avrebbero ben sostenuto il concetto del mio esigito "stallo". Solidali icone dei tanti successivi temporanei creativi eventi. Questo mio pensato allestimento, curioso, ludico, ironico nel suo aspetto esteriore, nelle mie intenzioni sarà altresì portatore di elementi di riflessione. Queste erano le mie intenzioni, questi sono i lavori che a Livorno presento. Il Jolly flautista incantatore, una delle opere "terrestri" posta in entrata, dal ciclo "Ratem, e altre storie" (1983), dovrebbe suggerire invitandoci alla risoluzione dei problemi; difficile con un incantamento, ma possibile con accanto l'opportunità di imbottigliare il messaggio in Messaggi d'ausilio (2005) per T'Isola", nella grande bolla vitrea, a superare così i mari agitati e agitanti i nostri stati d'animo. Cassetta d'invio postale dei nostri scritti di soccorso. In questa ricerca inventariale alle esigenze del tema "Sospensioni", le opere-oggetto, questi miei diversificati intenti formali sui materiali, giusti giusti si adattano al carattere stazionante che voglio rappresentare. E valore aggiunto è il non trascurabile elemento collegante le opere tra loro, quello del "viaggio". L'andare, non può non esaltare opponendosi, questo mio attuale dichiarato momento di stasi, di inattivo materiale operare. Tornano questi lavori a presenziare, formando fissa costellazione sotto le volte della banca: la Valigia-pacco-scatola e Ai naviganti del "Gruppomorto" (1992), il Remo per traghettare di "Navigazioni" ( 1 996), la Zetasospensione e lo Zetacontagio da "Zeta" ( 1990), il Menù, come ultima cena per il viaggio verso l'utopia da "Xypitolic" (1992), poi l'Ex voto per il naso di Pinocchio, alzato a vela sul suo ceppo sacrificale urlante un aiuto, da "La biblioteca
brucia" (2004). Ancora da "Zeta" (1 990) le Zeta/Pagine dei miei scrittori affidate ai venti. Perfino il Palio logorato e lacerato, annunciante la mia presenza, ho riappeso dopo i suoi Voli silenti alla Torre (1986).
A terra ho concluso con l'auspicabile e pensato approdo alle "Isole", con le offerte votive sotto al dipinto delle mie Sirene in esodo da "Esodi" (2001 ) appeso sopra, in parete, quasi da immagine sacra a richiedere devozioni.
Non ho potuto infine non includere il Giornale di bordo fermo e inaggiornato, adatto all'occasione, aperto sulla Pessoa-pagina e sul suo-nostro sognato battello in orizzonte, libro e leggio prestato da "Nel vento non placati" (1 995).
Ogni "viaggio" necessita di compagni coviaggianti, di fratellanze morali e di andature parallele. Ecco allora un ulteriore motivo di pensiero per il mio richiamo, il mio appellante richiamo. Tutte le opere allestite rappresentano in successione i temi da me sviluppati, segmenti del mio operare. Nascono dai progetti, discussi e poi via via cantierati, nella trentennale collaborazione con Romano Masoni e Nicola Micieli. Insostituibili compagni di strada. Veri rematori e con occhi da esploratori.
Tutto questo andar metaforicamente per mare, oltre a rafforzare il valore della risultanza di forze, ha lievitato in ciascuno le precipue individualità. Ogni nostro intervento comune si è poi rivelato carburante personale. E a loro che dedico queste mie "Sospensioni". Mie e loro. E come mi hanno aiutato a tirar su di corda, sono sicuro non mancherà la loro mano nel farle ridiscendere e al tempo stesso con l'altra presentarmi la nuova carta, la mappa; le direzioni dei nuovi percorsi a rimuovere questo mio stazionante momento.
In conclusione due parole sulla mia città, Livorno, non più da me abitata dal 1 984. Questa mia rara occasione di ritorno, non corrisponde al forte sentimento che verso di lei mi porto dentro. Il mio desiderio sarebbe quello di moltiplicarle le opportunità. Incidentale l'invito livornese, ma molto gradito, sollecitato anche a festeggiare la "Venezia", caratteristico quartiere della vecchia città, dove tra i suoi canali da sempre più che le barche e i gozzi sono scivolati gli umori e gli spiriti più autentici della gente che ancora la abita. Questo agosto dalle giornate lunghe, mi fa ripensare che proprio un ponte sui fossi ebbi a dipingere in una mia primissima tela. Eravamo nel 1 964 e avevo allora 16 anni. Rivedo papà che alle 5 del mattino mi accompagna su uno degli scali da dove
10 potevo riprodurre dipingendolo, ma in fretta prima che la città risvegliandosi potesse farmi vergognare. Avevo un grande pudore. In una città come Livorno, dove pittura è tradizione e la pittoricità della "Venezia" irresistibile, credo che nessuno, neppure quelli con i più ampi e innovativi progetti non l'abbia fissata almeno su una tavoletta,
11 suo supporto ideale. Anch'io da qui son partito. E qui ritorno con le mie progressive e successive "stazioni".
Livorno, 3 agosto 2009