Alfredo Chighine visto da Emilio Tadini. Testo di Tadini dal Quaderno della Galleria Matasci curato nel 1991 da Elisabetta Longari “Alfredo Chighine 1914 – 1974“.
Forse, per una prima, sommaria collocazione, si può dire che Chighine è un pittore informale. (E uno dei più grandi, in assoluto. Nel mondo, voglio dire. Anche se tanti critici non se ne son mai accorti). Ma, certo, si deve dire, subito dopo, che la parola ‘informale’, messa lì a definire la pittura di Chighine, denuncia tutti i suoi limiti. Perché questa parola fa pensare a qualcosa di volutamente caotico – mentre invece nella pittura di Chighine la struttura è sempre solida, evidente nella sua complessità. >
Ci sono due figure, all’origine della pittura di Chighine. La figura di certi personaggi disegnati, dipinti, scolpiti nei primi anni di lavoro. E la figura del paesaggio che si mostra nei suoi quadri del periodo ‘naturalistico’. Queste due figure sono all’origine della pittura di Chighine non soltanto in senso cronologico. Queste due figure, in un certo senso, hanno generato e nutrito tutta la sua pittura successiva.
I personaggi dipinti da Chighine agli inizi vengono, alla lontana, da certa pittura espressionista. Ma il fuoco emotivo che li deforma e li agita non lascia tracce visibili. È come se quel fuoco fosse dentro, nel cuore di quei personaggi. Le loro membra sono grosse, addirittura grevi. Sono costruiti, questi personaggi, come si costruisce una architettura. Agiscono forze come gravità e attrito, nella struttura di queste forme. Come in una architettura, appunto. E ne viene fuori, a volte, il senso di una autentica monumentalità. Ma segreta, oscura.
Milano Arte Contemporanea
Alfredo Chighine, 1973
Una specie di monumentalità capovolta. Paradossalmente, si potrebbe parlare di senso del monumentale unito a una specie di pudore profondo.
Chighine ha dipinto molti quadri di paesaggio. Andava proprio in campagna, si sceglieva il ‘motivo’. Poi, su quelle impressioni, lavorava in studio. Riduceva la figura del paesaggio a grandi sintesi, ad ampie zone di colore vibrante. La spatola, in questo, gli funzionava benissimo. Spesso, pennellate rapide, o graffiti fatti con il legno del pennello, sembravano segnare, fra quelle zone, cariche, di colore, le tracce fulminee del passaggio di una vera e propria energia. La realtà di un certo paesaggio finiva per perdersi. E finiva – così, perdendosi – per ritrovarsi nella verità di una visione. Una specie di paesaggio interiore – ma «costruito» sull’impressione…
Nella pittura di Chighine – in tutta la pittura di Chighine – è in atto una contraddizione di fondo. (Questo non vuol dire che Chighine non sia riuscito a risolverla, quella contraddizione. Vuol dire, al contrario, che quella contraddizione è al centro — è il centro stesso – di tutto quello che Chighine si sentiva portato a rappresentare, e voleva rappresentare, e ha rappresentato). Sto parlando della contraddizione tra gravità e leggerezza, tra massa ed energia, fra stabilità e movimento. Ma forse potremmo anche parlare di una contraddizione fra epico e lirico. È una contraddizione che si mostra in atto non soltanto fra diversi gruppi di quadri dipinti in tempi successivi. È una contraddizione che si mostra in atto, molte volte, nello stesso dipinto.
Nei dipinti di Chighine è come se il tempo si mostrasse nelle accensioni del segno. Ed è come se lo spazio si mostrasse nello stabilirsi delle masse di colore in una forma costruita. Ma, nella sua pittura, questo spazio e questo tempo diventano, naturalmente, la stessa cosa visibile.
Molti quadri di Chighine ci danno insieme un’impressione di grande stabilità e di grande provvisorietà. Forme che, nella stessa immagine – nello stesso spazio e nello stesso tempo – cadono e posano, consistono e si disintegrano…
La malinconia, nei dipinti di Chighine. Una specie di grande forza che deve confrontarsi con la malinconia. Una forza che nel suo stesso dispiegarsi produce malinconia.