Considerati per se stessi, gli avvenimenti si somiglian tutti, tutti situati sul medesimo nastro, che si snoda con il progredire ineluttabile del tempo. Siano essi grandi o piccoli, che coinvolgano l'individuo o la società intera, essi acquistano un senso solo con il loro allontanarsi dallo -hic et nunc-: la prospettiva che ne consegue è quella che rende possibile storicizzarli, e anche giudicarli. A seconda del punto di vista culturale e ideologico la valutazione può variare; ma senza di essa uno sbadiglio non differisce da un'eruzione epidemica, senza l'inserimento in un tessuto storico la donna che rammenda sull'uscio un calzino logoro ha un significato pari a quello di Maometto II che conquista Costantinopoli. Sino alla prima Rivoluzione industriale, quando cioè nacquero nuovi e più efficaci mezzi di comunicazione, erano necessari decenni, se non secoli, perché si evidenziasse la fuga prospettica, indispensabile per conferire un senso ed un valore agli avvenimenti del passato. Così, i fatti dell'anno 476 (che per noi rappresentano oggi un momento eccezionale come la fine dell'Impero romano di Occidente) vennero recepiti dai contemporanei quali episodi di una cronaca assai deprimente sì, ma non certo straordinaria, e il loro significato, quale si accetta comunemente ai nostri giorni, si delineò soltanto molti secoli dopo, durante il Rinascimento, per meglio definirsi alla storiografia dell'Illuminismo. Ma da due secoli a questa parte il moltiplicarsi, sempre più ampio, delle notizie quotidiane, il succedersi ininterrotto dello sviluppo tecnologico e, soprattutto, l'allargarsi del campo d'azione e di interessi di ogni singolo gruppo sociale (cosa che comporta una sin qui sconosciuta autocoscienza e una serie di riflessi e di reazioni a respiro mondiale), tutto ciò ha accorciato i tempi della visione prospettica, sino ad abbreviarli, in questi ultimi anni, in una dimensione che, ancora nel 1945, sarebbe parsa romanzesca e impossibile. È infatti lecito oggi valutare e giudicare avvenimenti che risalgono a poco fa, e che, nonostante lo scarso tempo trascorso, si rileggono e si rivedono con la lontana prospettiva un tempo riservata alle più remote lontananze. Questo preambolo (basato su considerazioni non certo originali ma che, anzi, rasentano i più frusti luoghi comuni) era necessario per entrare nel vivo del discorso, che verte su di un anno fatale, il 1968. Su ciò che accadde in quei mesi arroventati dalla California a Parigi, da Roma a Liverpool, (e, praticamente ovunque la locale situazione politica consentì la libera espressione di gruppi liberamente associati) molte e varie sono oggi le interpretazioni: eppure, non sono trascorsi che 16 anni. Ma un dato appare certo: il '68 segnò una svolta basilare, un dirottamento netto e deciso, di cui oggi si riescono a individuare sia gli antefatti, sia i portati e le conseguenze, in aree sociali, politiche e culturali. Fu quello un anno assai simile al 1848 (stranamente, molte date decisive della storia dell'Occidente terminano con il numero 8, in questo secolo, la fine della prima Guerra, 1918, \'Anschluss, che praticamente dette il via alla seconda, 1938, in Italia il terrorismo del 1978...); fu l'anno in cui, tra barricate e discorsi, tra raccolte di firme e manifesti murali, tra sussulti e manifestazioni di piazza, un'epoca venne a morire, quella politicamente utopistica, basata sull'illusione dell'intellettuale-guida, l'era della esiziale favola dello sperimentalismo proiettato sul futuro, favola che, a dispetto della sua assurdità, aveva per lunghi decenni annebbiato e accecato menti anche tra le più colte e le più dotate. Beninteso, i fatti del '68 erano stati preceduti da tutta una serie di episodi non già minori, ma che è necessario (nella definizione che qui si precisa) tenere come antecedenti: il rapporto di Kruschev al XX Congresso del PCUS nel 1956, la crisi missilistica di Cuba (1962), il declino della mitologia terzomondistica, con le notizie, sempre più gravi e drammatiche dei Paesi decolonizzati e poi caduti in mano a élites e a burocrazie parassitarie e affamatrici. Non è che il '68, suonando a morto per la teologia del socialismo reale, della Democrazia popolare, delle lotte di liberazione considerate tutte alla medesima stregua, abbia anche chiuso per sempre la sua diffusione: è, in effetti, una teologia che ha tuttora molti adepti, specie tra gli intellettuali, anzi, tra le corporazioni degli intellettuali che non si rassegnano alla scomparsa di prospettive per cui essi occuperebbero, in una favoleggiata società del futuro, una posizione privilegiata, di nuovi chierici, di chierici laici. Resta però il fatto che la chiusura segnata dal '68 è stata recepita, e spesso con accenti e in modi drammatici, da quel termometro sensibilissimo costituito dagli artisti (dai veri artisti e non dai professionisti dell'Accademia travestiti in panni attuali). E qui siamo giunti al nòcciolo della questione. Mi è stato infatti chiesto di dire qualcosa della pittura di Gianfranco Ferroni: io lo seguo da molto tempo, e da moti anni mi sono accorto della giustezza delle parole di Luigi Caraccio, che considerava come nota da cui è caratterizzata visivamente e spiritualmente la sua pittura il vivissimo sentimento di partecipazione. Non potrei essere maggiormente d'accordo con le parole dell'acuto e intelligentissimo critico, purtroppo scomparso. In Ferroni c'è stata, sempre, una dedizione assoluta e un impegno sorretto dalla meditazione e coinvolgimento nei fatti dei nostri giorni. Vorrei qui ricordare le immagini da lui create negli anni '60, che culminano nell'Omaggio a MalcomX del 1968, preceduto da Paura, del 1966-67, e seguito dal Palestinese e da La trappola, ambedue del 1969. Erano quelle immagini tipiche del momento, e ancor più tipiche e significative della resa in chiave figurativa degli avvenimenti quotidiani, filtrati attraverso uno schermo ideologicamente polarizzato, come quello di una sinistra guidata, la sinistra cioè dei compagni di strada. Non è che la tematica ne fosse impropria, o che accogliesse elementi deformati dalla propaganda: tuffai contrario, la denuncia della situazione delle minoranze di colore negli Stati Uniti, degli orrori della questione palestinese, e di tutti gli altri nodi, tragici e inammissibili, che si sono moltiplicati dal 1945 ad oggi, era una denuncia sacrosanta, sorretta da motivazioni che non era (e non è) possibile non condividere. A confronto tuttavia con ciò che Ferroni ha prodotto più tardi, ben risulta il dilemma che allora tormentava la sua mano di artista; da un lato l'accavallarsi dei temi, degli spunti, dei richiami mnemonici, delle sollecitazioni, dall'altro l'alternativa tra un discorso in chiave personale e un'accusa convogliata, quasi da murales, sofisticatissimi ma immersi e fusi, direi coralmente, in un tessuto di immagini collettive, senza precisi confini individuali, anzi, con l'intenzione di sopprimerli e di confonderli. La mostra di Gianfranco Ferroni, tenuta nel 1980 in Palazzo Cariati a Napoli, bene denuncia la frattura tra questo più antico capitolo e ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Le memorie, i pensieri, i ricordi, le ferite, i dolori, i segni, le gioie, le mestizie e le rapine del passato; tutto questo ed altro, senza far rumore, se ne è andato; è uscito o caduto fuori dalle dimensioni dei quadri... Sono queste le parole di Gianni Testori che, con icasticità esemplare, descrive la conversione di Gianfranco Ferroni; ed è proprio il caso di parlare di conversione, da un laicismo a sfondo religioso verso una religiosità assolutamente laica, immune da spunti metafisici o millenaristici. La scoperta della realtà e dell'ambiente quotidiani non sono, per Ferroni, un ritorno all'ordine sul tipo di quello, assurdo e deviante, propugnato dai regimi totalitari degli anni '30; piuttosto è un ritorno alla realtà oggettiva nuda e disadorna da cui bisogna muoversi, come da un punto di avvio, per avanzare lentamente ma con sicurezza, lungo la via della liberazione individuale e di quella sociale. Ferroni ha così scoperto, di per sé, che le rivoluzioni portano quasi sempre a nuove oppressioni, che il percorso più sicuro è quello che avviene per gradi, che il terrore, lungi dal condurre a una soluzione qualsiasi, genera nuovo e più spaventoso, totalitario terrore, ha scoperto cioè che il vero progresso sociale è stato raggiunto dal Socialismo dell'Ottocento, quello anteriore al 1914. Sotto questo aspetto, le sue lucidissime immagini recenti si legano al realismo del secolo scorso, anche se sfrondate dai condimenti letterari e retorici di cui quelle erano appesantite e, molto spesso, vanificate. Il messaggio di Ferroni va letto nella precisione della sua matita, di pazienza ascetica e di eccezionale potenza semantica; va letto nelle sue stanze deserte, stanze di artista o di malato, di abitazione o di ospedale, stanze che attendono di poter ospitare una società che ignori ogni frattura con l'ambiente che le circonda, di venire umanizzate per progresso non imposto ma spontaneo. Questo è il senso, almeno per me della pittura di Gianfranco Ferroni, cioè del risultato più profondo e sottile di cui la pittura italiana è debitrice nei confronti della grande disillusione, che fu il 1968, l'anno della morte del mito rivoluzionario.