E MORTE NON AVRÀ SIGNORIA
Non ho mai visto lo studio in cui lavora Lanfranco Quadrio, nè mai gli ho chiesto di raccontarmelo o di descrivermi le cose che ama e di cui si circonda. Immagino una specie di camera delle meraviglie dove, in un disordine così controllato da non lasciare il minimo spazio al caso, sia possibile imbattersi in ali di farfalle e in cangianti frammenti di libellule, e anche in pietose carcasse di uccelli mummificati, e poi carte ovunque accanto ad innumerevoli vasetti di acidi e a tubetti di colori.
Eppure non siamo di fronte ad un bizzarro cimitero in cui la morte festeggia la propria disperata vittoria: da questi oggetti inanimati, dalle tante ombre in apparenza senza più energia, Quadrio si ispira per raccontarci l'eterna vittoria della vita.
E il cuore, il centro intorno a cui ogni cosa prende forma è il suo torchio; un grande torchio a stella, che fa sì che acidi e lastre, inchiostri e carte, si uniscano e si compenetrino per dare forma compiuta all'opera. Così il torchio è l'atanor in cui fluttua lo spirito della vita e l'artista, alchimista e mago, conosce i segreti per impadronirsene.
In questo fare non è però sufficiente sapere dominare i più sottili procedimenti di incisione e potere contare sulla più lucida razionalità. Abbisognano ben altri doni, e sono quelli che provengono dalla capacità, inconscia, di andare dentro le cose e farle proprie. Non si tratta nè di ragione nè di intelletto, ma della attitudine a produrre quell'incantesimo magico che si chiama arte. Un'arte che rifiuta ogni valenza sociale, politica, religiosa o di puro divertissement, per parlare direttamente a quegli uomini, certo una esigua minoranza, che percorrono le strette vie della conoscenza cercando di sollevare il capo e guardare negli occhi gli dei.
In modo non gridato nè volgarmente accattivante, senza curarsi di quella compiaciuta ossessione per il nuovo che pare essere la cifra distintiva degli artisti di oggi, Quadrio segue la strada della tradizione rinascimentale italiana, imbevuta di cultura classica e di segreti, descrivendo il mistero di ciò che contemporaneamente è o non è, affascinato da quel rapporto tra finito e infinito che simbolizza l'enigma primo dell'esistenza.
Quelle spoglie di vita che Quadrio raffigura con assoluta precisione, senza però che mai diventino delle algide tavole da atlante di entomologia o di anatomia comparata, sono il sofferto prodotto della sua ricerca di assoluto: certo solamente di un frammento, ma pur sempre degno di essere perseguito.
La trasmutatio del tempo che modifica implacabilmente ogni essere vivente e non vivente (fino a ricondurlo a quella polvere primigenia che tutto plasma) viene vinta da Quadrio non da una immutatici artistica, che fissa le cose sulla carta mettendole al riparo dei guasti temporali, ma sottolineando, quasi con ossessione, come la vita e la morte siano le due facce dell'Essere. Descrivere con pertinacia la morte per affermare la forza inarrestabile della Vita, diventa così la sua cifra personale e distintiva, a cui non sa rinunciare perché è l'ispiratrice prima della sua arte.
In più occasioni, analizzando le opere del nostro artista, si è affermato che ci troviamo di fronte a degli studi di anatomia di morte. Il che, ad una prima lettura, può anche sembrare vero. Eppure c'è ben altro: in questa narrazione che si dipana e che si chiarisce foglio dopo foglio, la morte non è una prima attrice, che tiene con perizia e arroganza la scena, ma è la suggeritrice, che dal profondo della sua buca assume il ruolo indispensabile di chi farà procedere l'opera fino alla sua inevitabile conclusione. La morte-suggeritrice è allora il deus ex machina capace di sistemare le cose quando tutto fa pensare che la situazione sia disperata.
Consideriamo ad esempio il suo "Lische di pesce sul piatto", del 1987. Qui ciò che resta del corpo di alcuni pesci dà il senso intenso e sconvolgente della morte, perfino della putrefazione. Ma si tratta di una putredo alchemica, che porterà ad una vita superiore e sublimata. A rendere poi ancora più forte questo assunto, il piatto tutto intorno, e ancor più ciò che ne sta al di fuori, fanno pensare al cosmo, ad un universo sconfinato e lontano, a cui l'energia dei pesci si è ricongiunta. E la raffigurazione di due opposti, e non di una sola parte, che Quadrio così rappresenta: la vita e la morte, il finito e l'infinito, due apparenti antinomie che non possono esistere da sole, ma che unite delineano il senso di ciò che siamo e verso cui inevitabilmente andiamo.
Altre volte abbiamo visto rappresentati pesci di varie forme e dimensioni, interi o a pezzi, posati su piatti più o meno eleganti: basti pensare ai fogli di Luigi Bartolini e De Pisis, che ci rimandano a pasti frugali, a gite marine e montane, ad amori segreti. In Quadrio c'è la medesima perizia artistica, vediamo gli stessi segni preziosi, che però hanno la funzione di rendere ancora più acuto il dramma della caducità degli esseri viventi. Ma qui non troviamo quella disperazione, quel nichilismo che popola molta parte dell'arte contemporanea (un nome per tutti: Francis Bacon), perchè, come ho già detto, dalla morte Quadrio vede riemergere la vita.
Sullo stesso piano possiamo mettere molti altri suoi fogli, popolati ora da libellule dal corpo frantumato, con quell'ala che assume, certo non casualmente, la forma di una falce (cfr. "Studio di una libellula", acquaforte e bulino del 1994), ora da uccellini scarnificati o da farfalle dalle ali mozzate.
La composizione diviene ancora più articolata e complessa nel ciclo da lui dedicato ad Atteone, l'eroe e cacciatore che, per aver visto Artemide prendere il bagno senza veli, venne da lei mutato in cervo. Non riconosciuto, Atteone cervo verrà poi divorato dai suoi stessi cani. Raccontando questo mito, Quadrio ancora una volta non rappresenta mai la figura umana, ma sempre e solo l'eroe già divenuto cervo: non per sottolineare come sia identica la sostanza con cui sono fatti l'uomo e l'animale, e neppure per sostenere che all'uomo non è dato di avvicinarsi troppo agli dei, pena la morte. Forse, raffigurando la tragica fine dell'eroe non più umano, egli vuole indicarci che anche gli uomini più straordinari subiranno e patiranno la morte, alla stregua degli esseri posti più in basso. Eppure, nonostante questa stessa, identica fine, Quadrio sa che l'umanità ha bisogno di uomini eccezionali e che questi non mancheranno mai.
Sempre egli utilizza il principio di analogia ed evoca una relazione fra l'immagine (il cervo e i cani che lo dilaniano) e una idea (il cambiamento di stato). Quando il suo bulino dà forma sulla lastra a cani feroci e senza memoria che azzannano e sbranano l'animale finalmente raggiunto, siamo ancora una volta posti di fronte al desiderio dell'artista di confrontarsi con il mistero della morte e della vita. Perchè non vi è nulla di più imprendibile, terribile e commovente del momento in cui un essere esala l'ultimo respiro, quando il sangue, rosso e prezioso, non circola più nelle vene e il cuore si arresta.
La vita fugge via e tutto pare finire, ma forse è solo un altro cambiamento di stato, l'ingresso in un territorio nuovo che andremo ad esplorare. Ecco perchè il cervo, simbolo della vita che ringiovanisce di continuo e della rinascita, trova il proprio destino quando incontra il cane, la guida dell'uomo nella notte della morte.
Bologna, Ottobre 2004
Remo Palmirani