Si può anche sostenere — e qualcuno l'avrà pur detto proprio per le "maniere nere" di Alberto Rocco — che con questa tecnica incisoria l'autore -porta alla luce- lavorando di brunitoio e raschietto, oltre a servirsi di più o meno ruvide carte abrasive, -l'immagine nascosta-, latente nella vellutata superficie metallica della matrice operata.
Rocco stesso l'aveva in qualche modo suggerito, romanticamente affermato, in una sua autopresentazione dell'ottobre 1973: -"il nero profondo tutto già racchiude: nel magma cupo... un modo sommerso di sensazioni imprigionate, meravigliosi sussurri, promesse inquietanti attende per manifestarsi"-.
In realtà, l'impegno stesso con il quale l'artista è preso dalla preparazione della matrice, sia essa in zinco o di rame (preferito spesso, sebbene più costoso, per la naturale sua maggiore omogeneità), non deve lasciare molto spazio, in quel momento, alle letture più o meno fantasticate d'una superficie che deve infine risultare uniformemente scalfita dai reiterati passaggi del tagliente pettine a mezza luna, qual è il -berceau-, fino al prodursi della perfetta granitura (dovuta all'incrociarsi dei segni secondo precise angolazioni, perpendicolri e diagonali) che costituisce quella fine tessitura che, stampata calcograficamente, lascerebbe sul foglio la vellutata impronta d'una -"tenebra profonda"-.
Soltanto a questo punto l'artista incomincia la nuova fase, più squisitamente creativa, riguadagnando intanto la luce, da quel buio. E con la luce, fingendosi le immagini che non erano in quell'indistinto nereggiare del fondo. Ma sotto forme anche diversa, nella sua mente; o nel suo cuore o nella sua fantasia: più esattamente, forse, nella creatività del suo spirito, -formativamente-pronto (secondo l'estetica pareysoniana) a materializzarsi su quella superficie e in quel momento — ed è -l'hic et nunc- di sempre — tenendo anche conto d'ogni materica suggestione e quindi del suo stesso fare: ogni intervento costituendo un elemento del processo formativo attraverso il quale l'invenzione visiva dell'autore ha concretamente modo di manifestarsi.
A contare, insomma, non è soltanto l'abilità maieutica d'una levatrice (che pur non mancherebbe d'esser apprezzata), ma piuttosto quella dello scultore portato all' "arte del cavare" traendo le sue figure, vive e vitali, da un sasso apparentemente inerte: eppur ricettivo alla forma che gli verrà dall'ispirato sogno, come del fantasticare proprio dell'immaginazione creativa dell'artista.
Ogni volta, come Rocco ci ha insegnato, l'autore si varrà delle tecniche più appropriate. Egli stesso si presentò in altre circostanze, dando ad una stessa immagine le espressive declinazioni che andava conferendo loro attraverso il ricorso al disegno d'una punta d'argento, all'acquerello o all'incisione. Più d'uno ricorderà, anzi, certe sue primigenie composizioni pittoriche (per non dire dell'iniziale suo impegno plastico) frutto di tormentate elaborazioni, da cogliersi in una stratificata ricerca di valenze luminose che dovevano costituire lo spessore anche psicologico d'un simbolistico racconto figurato. E c'è, nel passato dell'artista, tutta una lunga serie di approcci alla tecnica e ai suoi fasti, che sarebbe appena giusto ricordare con l'ammirazione per le esemplari pagine stupendamente realizzate da Yozo Hamaguchi che il giovane Rocco ammirava, di giorno, alle pareti d'una galleria torinese che ne aveva ospitato la "personale" per sognarsele, di notte, progettando insieme con la fantasia gli strumenti supposti ideali, quanto rudimentalmente tentati (e non senza pericolo per l'incolumità delle proprie dita), fino alla loro più perfetta acquisizione.
E così è stato: in modo da far sì che, in questa mostra, il rapporto con il pubblico lo si giochi interamente sul registro calcografico della, ormai prediletta, maniera nera e quindi sul lungo arco di tempo d'un trentennio esatto.
Datano infatti del 1959 tre stampe che possono considerarsi dei veri incunaboli: -Luna piena, Lampada e bottiglia, Volto-. Vorrei definirli tre gradi di una conoscenza in corso di approfondimento, se si osservano le superfici, a loro modo discontinue, irregolarmente operate: la luna appena segnata da non più di qualche meditato sconfinamento marginale inteso a dare profondità alla composizione, come se un ramo si fosse intromesso sulla direttrice dell'occhio rivolto verso l'argenteo disco; gli oggeti organizzati nello spazio come fantasmi o inquiete apparizioni da leggersi quasi in filigrana; un volto quasi forzato nel suo ricercato rilievo plastico.
La conquista strumentale si direbbe sia venuta all'insegna d'una serie di macologiche presenze: attraverso la -Mitra papalis- le piccole oviformi -Cipree e La conchiglia barocca- di cui Rocco sentì subito il bisogno di offrire, come in una sequenza che li ponesse a fronte, tre loro tirature, diverse per inchiostrazione (in nero, bistro e blu) cui si direbbe corrispondano altrettante incidenze psicologiche legate a valenze ambientali.
Ed è la linea di sviluppo che, intorno alla metà degli Anni '60, Rocco percorre anche nelle sue maniere nere in cui la tecnica non è più l'ostacolo da superare, ma lo strumento di cui consapevolmente ci si vale mentre l'attenzione per l'oggetto che aveva spesso suggerito motivi di vertiginose rese offerte in termini d'immagine, come in -Fiala, Il bucchero, L'alzata I e II-, potè spostarsi sulle dominanti atmosferiche.
Con gli Anni Ottanta, infine, quelle stesse avvolgenti luminosità - abbandonato lo specifico oggetto della natura morta - si erano presentate in due precisi filoni tipologici: il "paesaggio", inteso nella sua quasi più astratta indicazione inglese del -Landscape- ( anche se al suo interno l'ondulazione del terreno o la presenza di un albero dallo specifico portamento o d'una casa, ne consentivano e suggerivano le più ricche e suggestive declinazioni) e il -Mare- . Innestandosi, questa nuova ricerca, sulla lunga esperienza che aveva avuto naturale avvio con decine e decine di acquerelli. Per Rocco si è trattato, a questo punto, di riaffrontare nell'autonomia propria del linguaggio incisorio, le nuove "maniere nere" e, con loro, una inedita analisi delle variabili dettate dalle componenti di quell'insieme di acqua, aria, luce e dei loro movimenti che costituiscono ogni presenza marina offerta alla meditazione dell'Artista, ma più ancora, forse, dalla sua idea e dal lavoro in precedenza compiuto.
-"Rocco precisa che la natura poco lo commuove "-ebbe modo di osservare Pino Mantovani, in occasione d'una sua mostra torinese, e proprio a proposito del -Mare "il mare in particolare gli è estraneo "-. Ciò che a lui serve, e gli è necessario, anche se di per sè non è sufficente, sono d'altra parte il rigore laico della mente, la logica di una ricerca, l'impegno e la costanza. Ma, bene inteso, con quella misura poetica che ciascuno si porta dentro e che in un artista, qual è Rocco, si traduce in creative risonanze.