Antonio Pesce e l’acquaforte come linguaggio
C’è crisi nel mondo della grafica d’arte. Nel mercato, certo, almeno per l’incisione originale, ma anche tra gli addetti stessi che privilegiano questa particolare tecnica e che non vedono chiaro un approdo sicuro e ben definito al loro percorso artistico.
Non risulta altrettanto grave il problema nella grafica in genere, intendendovi in senso lato tutte le svariate aporie che sono venute ad accostarsi ed a sovrapporsi alle norme tradizionali, calcografiche e silografiche, nella riproduzione seriale di un disegno o di un dipinto, ché l’avvento dei mezzi fotomeccanici, elettronici e digitali ha conquistato ormai sia i favori di innumerevoli artisti consapevolmente estranei alla tradizionale capacità di mestiere (non solo quello che nei maggiori esponenti fu spinto sovente a livelli di eccezionalità e tale da raggiungere spesso, e talvolta nella accezione peggiorativa, nella prevalente descrittività delle opere e nelle lusinghe del virtuosismo del bianco e nero, l’abbagliamento perfetto e totale di una realtà evasa in ogni sfumatura), sia la ratifica di un mercato, pur vasto quanto improvvisato, e di conseguenza di una critica insipiente, che colpevolmente si beano delle metafore di improvvisati incisori al cui poetico intellettualismo, sovente, la mano non sembra rispondere con altrettanta agilità.
A premessa ancora delle considerazioni sulle pagine incise di Antonio Pesce, è bene puntualizzare che ogni incisore “puro” (non quindi il “peintre graveur” che accosta il foglio di grafica parallelo alla tela dipinta, e sa inserirsi in un giusto sistema di aspirazioni estetiche ben precise e variabili nel tempo) ha sempre dovuto confrontarsi con l’aspetto mercantile della propria attività, con la vendibilità di una produzione che scarsamente, per svariate ragioni tra cui anche una generalizzata decadenza del gusto estetico, oggi risulta appetibile. La figura dell’artista eccentrico, controcorrente ed eroicamente insensibile alle esigenze del companatico - fatte salve le eroiche eccezioni patologiche degli incisori “puri”, volontariamente ed irresponsabilmente isolatisi in un’inviolabile turris eburnea - è un’invenzione letteraria e, in qualche misura, consolatoria.
Un felice istinto, prepotente e talvolta non controllato, una millantata sicurezza, spesso insinuata dal dubbio, sono il notevole pregio, e in alcuni sporadici casi il limite, delle incisioni di Antonio Pesce. Nell’interpretazione schietta, ancorché cerebralmente elaborata né mai faticata, costante e immediata della realtà, che si respira nei suoi paesaggi agresti e contadini: in una natura tuttavia frequentemente armonizzata e piegata alle esigenze di un temperamento forte, nascosto ma neppur tanto sotto una pelle di modestia campagnola, quella inclinazione antica ed oggi rara che concede, stretta, la fiducia, ben consapevole delle difficoltà e dell’inganno che permeano la vita.
Simile appare il suo rapporto con la lastra. Quasi guardingo al principio, nei giri leggeri che la punta ricama sulla cera, poggiando lieve ad annusare contorni e profili, a saggiare linee ondivaghe che si sommano, infittendosi come una pioggetta autunnale che quasi non senti e intanto ti inzuppa, come le sete di una ragnatela che impercettibile e soffice ti avviluppa e imprigiona.
Antonio Pesce procede dapprima accorto, a piccoli assaggi, esplorando il territorio, fissandovi i confini, difendendovi i siti preposti alla fertilità del solco.
Poi l’affondo.
Che arriva improvviso, quasi aggressivo. Lo vedi nei cieli, che quasi mai sono tersi, “puliti”; percorsi invece dal contorcersi di grumi che si aggregano in corpi nuvolosi tagliati da lame di luce, e che incombono su prati, campi e cascinali, scendendo da alberi/erme/anime che legano in un tutt’uno la scena, da cui esplodono sprazzi lampeggianti e soffusi lucori a reclamare e testimoniare un sentimento ed una sensazione.
È un atteggiamento, ribadisco, di carattere, che appare ben chiaro nella successione cronologica dei lavori, dai primi approcci tentati su lastre prevalentemente orizzontali, quasi per confondere il titubare del segno nella vastità della veduta. Con processioni di salici e gelsi, muretti stentati e casali sbrecciati, tetti incerti e finestre vuote, figure indecise, quasi fantasmi. Che via via prendono forma, quando le ombre fumigano a fissarne la massa, a dar corpo. E compaiono qui e là ectoplasmi di pensieri, che sbirciano da dietro i panni stesi ad asciugare e mugolano graffiati su muri polverosi. Dapprima nei simboli della memoria, la barchetta e il motteggio; poi in una valanga di pensieri filanti che si addensano e aggrovigliano fragili ma compatti: matasse, teppe, cespugli, biche, fascine, covoni, cumuli di parole che ricostruiscono a misura d’uomo, in un intimo hortus conclusus, l’universo perduto.
Pesce è un paesista sensibile e personale che traduce le istanze della nostalgia in termini di originale lirismo: da una finestra aperta all’approccio evocativo ed al motivo pittorico di riflesso ottocentesco di remota scuola fontanesiana. La sua tecnica (ma soprattutto il suo linguaggio calcografico che “usa” la tecnica; non si fida di un mezzo che resta meccanica morta quando non è guidato da un’anima e da un’emozione!), si evolve in parallelo con una ricerca linguistica di progressiva essenzialità: quale si rivela negli ultimi lavori, la serie “presenza-assenza”, tutta giocata in termini di luce e di spazio. Dopo l’iniziale timida stesura di tocco, si è infatti avviato a sicure elaborazioni di nitida eleganza ed è infine pervenuto ad esisti di straordinaria intensità - insieme chiaroscurale nelle masse e pittorica nella linea indagatrice -, del tutto personale, giocata sui tagli sempre attenti nelle calibrature, su intense improvvise (ed ammiccanti) luminosità, su toni opalini e perlacei.
La sua poetica è semplice, limpida come la gente delle terre monferrine, dalle mani spesse per il lavoro in vigna: la campagna con le sue vecchie case, il gerbido, i fossi che gli ontani scheletriti custodiscono ed i rovi insidiano, i campi dopo la mietitura, gli orti incolti, i cancelletti sbilenchi dalle doghe schiodate che si appoggiano ai sassi di incostanti muriccioli in un lento “meriggiare pallido e assorto”. Le sue pagine incise sanno di narrazione famigliare, di rado le toccano l’artificio e la sorpresa; si dipanano con segni prudenti e sicuri, talvolta affondano a cercare gli effetti bistrati che rafforzano con accenni a secco il paziente lavoro dell’acido. Il gesto all’apparenza timido è invece rispettoso: del lavoro soprattutto, ché la sua matrice è forziere di tempo e di fatica. La punta che incide vomere, la vernice di cera fumosa terra fertile da scavare, l’inchiostro seme che feconda e deposita sul foglio la messe. Il torchio… quello non ha segreti per chi nei cromosomi possiede i retaggi ancestrali e le formule antiche del vino e dell’olio. Perché soltanto quando il raccolto cresce irrorato dalla passione, l’artista/artigiano (l’autentico incisore “puro”) può chiamarsi soddisfatto, ed a buon diritto guardare con fiducia all’emozione di una nuova stagione.
Gianfranco Schialvino