Più gli anni ci allontanano dalla morte di Giacomo Manzù e più l'immagine di questo artista, che è passato integro attraverso tutte le avventure del secolo, mi appare come quella di uno scultore che sia vissuto nella polis greca o anche prima, nell'epoca minoica, quando raffinatissime dame afferravano le serpi come fossero sinuose cinture decorative, nella piena fiducia del contatto tra la natura e l'uomo.
Eppure Manzù, maestro di disegno fin dalla sua giovane età, non fu giudicato dapprima come un «classico» ma fu invece considerato alla pari di coloro che ancora negli anni trenta ricercavano un primitivismo «romanico» che fu tanto caro all'architetto Muzio e allo stesso Sironi che furono i primi protettori dell'artista bergamasco.
La tesi sul primitivismo di Manzù non durò molto: gli stessi «arboscelli» (qui esposti di cui la poetica manzuniana si ornò come di un erbario umanitico fino agli anni del dopoguerra) mostrarono una libertà di immagine che niente aveva in comune con gli stilemi del tardo novecentismo e ciò non perché Manzù, che aveva stretto contatto con gli amici di –Corrente-, avesse cambiato il suo stile ma perché già, nei disegni (qui c'è -l'autoritratto- in posa di Nazareno) traspariva un senso di profonda e moderna classicità che poneva come sacra l'immagine dell'uomo e della natura superando ogni precedente stilizzazione. Non si può dimenticare guardando, questi vecchi disegni di Manzù che essi non sono soltanto quelli di uno scultore ma anche di un pittore perché egli è stato per parecchi anni ugualmente impegnato nelle due arti come i nostri artisti del Rinascimento.
Un disegno come quello preparatorio dell'affresco che Manzù ha fatto a Selvino è veramente il disegno di un pittore, il contributo del chiaroscuro modella le forme e supera ogni stilizzazione.
Dalla fine della guerra, come universalmente noto, la fama di Manzù esce dal gruppo ancora ristretto degli estimatori e assume una sempre più larga consacrazione internazionale.
In mezzo c'è stata tutta la serie delle «crocifissioni» pregnanti del sentimento di pietà per gli orrori della guerra e per il martirio partigiano.
Il disegno di Manzù si è sempre più umanizzato, non ha avuto timore di perdere il contatto con gli stilemi del modernismo e di porsi al livello dell'immagine comune, di linguaggio universale. Ricordo personalmente di aver affrontato discussioni con illustri critici stranieri circa il valore dell'immagine manzuniana nel pieno dell'arte moderna cui lo scultore bergamasco apparteneva a pieno titolo, lontana dagli astratti furori quanto dalle banalizzazioni di un realismo illustrativo.
Questa caratteristica «lombarda» di Manzù non umilia il livello internazionale dell'artista, gli dà anzi un senso, ne definisce il messaggio che supera il tempo nostro per prendere il giusto posto nella storia.
-Il ritratto di Pio- del 1942 con la sua commovente interpretazione circa i destini dell'infanzia, è un capolavoro del disegno di tutti i tempi, sembra la preveggenza di un destino doloroso nella morbidezza dei capelli, nel reclino degli occhi, nella caratteristica del naesetto a patatina. Disegni come questo sono il contrappunto delle linee tragicamente spezzate delle «deposizioni», -l'alter ego- di ciò che può essere lo strazio del corpo e dell'anima. Per capire quanto è importante il posto di Manzù nella storia dell'arte del nostro secolo bisogna pensare al coraggio che egli ha avuto di vincere il complesso di inferiorità che ha contratto gli stessi «grandi» del nostro secolo (compreso Picasso) e che hanno subordinato il loro messaggio agli -idola- del linguaggio modernista, come se fosse possibile oggi restituire all'uomo la sua poesia se non attraverso i canali dell'intellettualismo manieristico.
Oggi Manzù è consegnato alla storia specialmente come il più importante autore di porte di cattedrali (da S. Pietro a Salisburgo) ma egli non ha adattato la sua scultura ai modelli delle rivisitazioni romaniche o gotiche, ha imposto un suo stile fresco, nuovo perché autenticamente umano, quello che la vita e non il cervello, gli ha suggerito. Questo artista, che è passato attraverso i travagli del fascismo e della guerra e che si è immerso in essi senza riserve né isolamenti da chierico, è riuscito a vincere quell'istinto alla demonizzazione dell'uomo che ha coinvolto tutto l'espressionismo contemporaneo e che è apparso come il superamento della inerte retorica del novecentismo. Lui ha segnato una terza via, quella dell'espressione dell'umano a mezzo della eterna grammatica della figurazione, adatta per tutti ma raggiunta da pochi, quelli che hanno toccato le vette della poesia siccome i classici di tutti i tempi.