Tra le città italiane Torino è quella che con ritmo più insistente richiama l'attenzione sul nome e sull'opera pittorica di Alberto Savinio. Il pittore, che sembrava destinato al piacere di pochi raffinati, al tempo in cui i suoi dipinti e disegni erano appesi, quasi in forma privata, sulle pareti nere della galleria che Guido Le Noci aveva aperto all'insegna del Borro-mini, a Milano, all'ultimo piano di una casa di via Manzoni, vince ora lentamente le resistenze dei critici e dei collezionisti. Se qui a Torino più sovente che altrove, più che a Milano e a Roma, due città pur così strettamente allacciate con la vita pratica ed affettiva di Savinio, le mostre in galleria tornano ad offrire campioni di un'opera che risale lentamente le scale del successo, si è tentati di pensare che forse è vero che un filo segreto lega gli uomini e gli ambienti.
In Dramma della città meridiana, un poemetto che è del 1916 e perciò molto vicino per data oltre che per ispirazione e per stile a Les Chants de la Mi-Mort del 1914, Savinio introduce immagini sorprendenti. Statue di uomini politici, che abbassano la testa e dicono il loro ultimo canto prima di abbattersi scivolando su un fianco e giacere « come Arianne abbandonate ». Una donna calva che si arrampica come una lucertola dì latta sullo zoccolo della statua di Emanuele Filiberto, « in Torino la pura », e trafigge con una lama il bronzo donde subito sgorga un fiotto di sangue purpureo; Colombi che cantano « come Arianne afflitte ». Queste immagini, ma ce n'è anche un'altra, in cui le belle case appaiono quiete come « Arianne addormentate », rivelano che Savinio poeta aveva allora sotto gli occhi le "Piazze" del fratello De Chirico e che il suo immaginar fantastico elaborava quindi un materiale arcano raccolto qui a Torino. Si potrebbe addirittura esser tentati di dire che il Surrealismo è nato a Torino. Giorgio De Chirico intuisce infatti, proprio qui, sul filo di una vivida malinconica memoria, quella linea di incantamento, di silenzio e dì vuoto densi, quella sensazione di attesa di miracoli laici delle "Piazze". In esse si decanta e si consuma Vanimazione scenica, ritualistica, di origine boeckliniana, che è possibile ancora avvertire anche se è appena un sospetto, nei dipinti fiorentini del 1909-10 come Enigma di un pomeriggio d'autunno, dove l'irrigidimento delle architetture e delle cose rimane sospeso in una labile traccia di luce atmosferica. Sono le "Piazze" che danno corpo e sostanza ad una visione che è profondamente nuova nella storia delle arti figurative. Certuni dei loro elementi, e quindi certi frammenti di Torino: i monumenti retorici degli uomini politici, i monumenti equestri, e proprio il "cavallo di bronzo", sottratti alla loro inerzia funesta, ricompaiono nella poesia di Savinio, che se ne serve, come un regista si serve dei praticabili di scena, per allestire le sue prime rappresentazioni magiche: i primi "cadaveri squisiti" del secolo. Quelle pietre che si accosciano su un fianco, quei metalli che sprizzano sangue vivo, sono già l'evento e l'avvento del Surreale nel mondo dell'arte d'oggi; sono cioè i primi fenomeni di una prima e libera, libera sia rispetto ai canoni della tradizione che a quella dell'avanguardia, strutturazione iconografica, che non miete più nei campi dell'incongruo, dello stravagante e dell'assurdo per necessità didascalica o didattica, di carattere teologico 0 meramente esornativo, ma per comunicare oramai qualcosa che sta dalla parte della Notte; cioè dalla parte della Natura « libera e vagabonda » e delle ore in cui, per non celarsi con i suoi propri veli impenetrabili « ma solo con quelle fallaci del buio » essa la {natura) si lascia esaminare e leggere più facilmente, perché « la notte è la sede eletta di tutte quelle operazioni che, essendo celate per indole, vogliono circondarsi di un apparato di oculatezze », perché, infine « alla notte sono stati assegnati i misteri e l'amore e i delitti e quei lavori che hanno in sé alcunché di magico e di inesprimibile naturalmente » (Delle cose notturne, su "La Ronda", maggio 1920).
Il Surrealismo, questo è certo, è nato con Savinio. Lo ha già detto Bréton e non esistono elementi per contestare l'autorevolezza e il disinteresse della affermazione di Bréton. È Savinio, che ha cavato da un contesto ancora indefinito le prime figure, inedite e capitali del Surrealismo. Nel gioco del dare e dell'avere tra i due famosi fratelli, in cambio dei monumenti di pietra, dei cavalli di bronzo e delle Arianne, che stanno nel bagaglio e nella nostalgia comuni della comune infanzia in Grecia, Savinio è il primo e definire con l'icastica ed enigmatica figura di uomo « sans voix sans yeux sans visage » evocata nel capoverso della terza strofa dei Chants de la Mi-Mort, e con la densa e piena plasticità della forma allusa pochi versi prima: « les ceufs soni chauds... » la misteriosa, ellittica, ovoidale appunto, presenza principe dell'inventario surrealista, ed a prefigurare, così, il manichino dechirichiano.
Savinio è infatti surrealista dieci anni prima che il Surrealismo prenda storicamente coscienza di sé e si costituisca come gruppo di pensiero e d'azione. Le poesie, le prose, le azioni sceniche, le musiche, i balletti di Savinio, da Chants de la Mi-Mort (1914) a Hermaphrodito (1918) a Dramma della città meridiana (1916) a Delle cose notturne (1920) a Vita dei Fantasmi (1925) a La Morte di Niobe {1925) a II tesoro di una Rampsenita su libretto di Calvocoressi, ad Amore della Notte e Perseo su libretto di Fokine, a Ballata delle stagioni si sviluppano in parallelo con l'opera pittorica del fratello De Chirico, probabilmente con un fìtto intrico di crediti e debiti difficile da sbrogliare, ma su un filone autonomo.
C'è comunque un elemento di distinzione che bisogna subito sottolineare. In luogo dell'inerzia scenica che accentua il carattere metafisico della pittura di De Chirico, l'arte di Savinio produce una sensazione strana, aspra eppure dolcissima, di flusso continuo; come è tipico delle cose di natura, dal loro nascere al loro morire ed al loro perenne risorgere, cioè come è tipico del "continuum" della natura. Così le immagini poetiche dapprima, poi quelle pittoriche — a partire dal 1927, quando Savinio comincia a dipingere profondamente convinto di non tradire la propria vocazione, ma anzi di acquisire ad essa la strumentalità di un linguaggio aperto alla percezione e comprensione universale — insieme con le fratture, le sincopi, le rapide accumulazioni o assemblages, tipiche di un discorso che vuole valere anche per i suoi silenzi e per i suoi innesti, mostrano di possedere una grande energia sia di tensione interna che di espansione; mostrano cioè di essere contratte su se stesse ed al tempo stesso di evolvere verso una conclusione che può essere soltanto intuita; .come se contenessero un residuo animistico ancora attivo, lasciato cadere da una spora dell'Art Nouveau nel proprio impossibile futuro. Il Surrealismo infatti rientra nel cerchio dei caratteri comuni ad una visione che è intensamente vitalistica; che lo è anzi in modi lancinanti, rapinosi, quasi malati di un istinto di vita. Al tempo stesso, si nutre di idee e vuole rendere visibile una particolare inclinazione del pensiero. Questi richiami storici son fatti soltanto per rilevare quanto siano strani e ingiustificati il silenzio e le limitazioni che subiscono le opere di Savinio, proprio in un'epoca, la nostra, in cui il giudizio estetico così sovente e così volentieri cede una parte della sua intransigenza ogni volta che la valutazione delle opere può utilizzare i caratteri eterodossi della sua "importanza" e della sua "priorità". Tanto più, poi, che molte volte il giudizio dubitativo sull'opera di Savinio appare formulato isolando astrattamente i suoi caratteri pittorici; astraendo cioè da quei valori di importanza storica, di priorità inventiva e di originalità del linguaggio, che del resto sono elementi di scarso rilievo, soprattutto se considerati disgiunti dal mondo poetico dell'artista, dalla identificazione e dal riconoscimento dei caratteri particolari di quel mondo. La bellezza della pittura, in quanto materia e strumento, non viene prima della effettiva presenza dell'opera, o questo accadde soltanto nei tempi ritenuti di manierismo. Essa forma un tutto unico con l'attuazione dell'opera e quindi con le sue motivazioni intellettuali e poetiche, con le sue necessità umane. Questo tipo di rapporto diretto, se mai ne è esistito uno. è il rapporto chiave dell'opera pittorica di Savinio, che è volutamente una trascrizione
figurale del discorso letterario. È un rapporto che può essere rifiutato, sebbene sia difficile giustificare questo rifiuto nel momento stesso in cui si accoglie largamente, il criterio dello sperimentalismo. Ma se lo si accetta la pittura di Savinio comparirà bella in un modo quasi struggente; perché ogni suo aspetto è accolto dall'artista con un sentimento di riconoscenza; perché ogni suo tratto esprime la situazione d'umano intelletto d'amore dalla quale prende l'avvio; perché l'orrore e la grazia vi sono rappresentati in tutta la loro drammatica e affascinante innocenza, come due elementi distinti ma non contrastanti; anzi complementari, seppure ciascuno conservi i suoi caratteri tipici e provochi gli effetti che è proprio della sua natura provocare.
Per me poi la pittura di Savinio è tra le più belle che sia possibile conoscere, almeno nei momenti non rari in cui al suo limite accosta e sfiora l'estroversione generosa e tumultuante, la perfetta registrazione tra pensiero idea e ideogramma, e il pensiero stesso brucia tutte le sue scorie, allontanandosi dagli aforismi, dalle sentenze o anche soltanto dalle sciarade, raggiungendo la nuda semplicità, che è in ogni momento della continuità della vita, del suo "continuum" tra i suoi limiti, e l'acme di un fervore, che è il fervore stesso dell'esistenza. Ansioso stare svegli tra due notti, a numerare e patire le contraddizioni di tutto ciò che ci strappa alla quiete lussuosa dì quelle due notti. Notti così lontane tra loro, delle quali conosciamo, di una soltanto ì genii e le tare così come essi affiorano all'istinto