Nel 1931 mi recai a Torino e vi trascorsi parecchi giorni in compagnia di Mino Maccari e degli amici che egli si era fatti in quella città e che divennero presto anche miei. Con alcuni di essi, con Velso Mucci fino alla sua morte, con Italo Cremona e con Eugenio Galvano mantengo ancora affettuosi rapporti. Maccari stava per iniziare, sul Selvaggio, la pubblicazione della Vita di Pisto, il primo scritto che davo alle stampe, ne avrebbe conservato la composizione e voleva farne un libretto, l'inizio di una serie che si augurava lunga. Il secondo sarebbe stato Isolina la bella pesciaiola — fu anche annunciato sul giornale — ed era la vita di una popolana di Pisa narrata da Enzo Carli.
Il manoscritto era arrivato a Torino, Maccari e io lo avevamo letto, ma quando Mino decise di pubblicarlo non riuscimmo a ritrovarlo: era scomparso nell'incredibile disordine che esisteva nella sede del Selvaggio, alcune stanze in via Pietro Micca, 12.
Trovai Maccari al centro di una bufera che si era scatenata su di lui. Le continue frecciate contro la retorica e il malcostume avevano irritato le autorità fasciste. Avevamo avuto anche la visita della milizia, quattro militi e un centurione.
Sul Selvaggio del 15 febbraio erano apparse queste righe: « ...In quanto ai cavourrini è bensì vero che non hanno corso legale, ma c'è chi dice che a Torino non sono pochi coloro che n'hanno piene le cassette alla banca, o che li tengono sepolti sotto la mattonella: tutta brava gente che dorme sui suoi cavourrini nell'attesa che questo vento, questa sfuriata passi; nutrendo essi fiducia che non sia lontano il giorno in cui potranno svegliarsi e rimetterli, con loro stessi, in circolazione, senza tema di noie ». Il centurione aveva chiesto a Maccari che cosa significava quel discorso e Mino gli aveva risposto che non lo sapeva neppure lui, era una fantasticheria, non alludeva a nessuna situazione reale.
Sbirciando nelle stanze piene di giornali, di libri, di disegni e incisioni, di mucchietti di corrispondenza, un milite aveva scoperto il rozzo calcio di legno di una pistola e aveva chiesto dove tenevamo la canna. Maccari gli aveva detto: « A Colle di Val d'Elsa ». « Dove si trova codesto paese? » aveva domandato l'altro. « In provincia di Benevento » aveva detto Mino.
Il milite era rimasto un po' sopra pensiero guardando fisso in terra come a misurare due punti del pavimento, poi aveva detto: « È una città molto lontana ».
Quando i militi se ne erano andati, uno di loro, con la scusa di stringersi la cinghia di un gambale, era rimasto nella stanza. « Anche io sono uno scrittore » aveva detto. « Ho scritto una commedia e desidererei avere il vostro giudizio ». « Ce la porti » aveva risposto Primo Zeglio. « La leggeremo ». « Perchè non viene lei a leggercela? » aveva aggiunto Maccari. « Le opere teatrali risultano meglio se lette ad alta voce ».
Avevamo fissato un appuntamento.
Il giorno stabilito ci eravamo vestiti tutti di scuro, ci eravamo seduti l'uno accanto all'altro dietro il lungo tavolo, come i membri di un tribunale. Quando il milite aveva fatto il suo ingresso nella stanza eravamo scattati in piedi sull'attenti e l'avevamo salutato con il braccio teso. Lo avevamo fatto sedere su una seggiola appoggiata alla parete posta davanti a noi. Sopra la sua testa, appeso alla parete, c'era un magnifico disegno di Ottone Rosai che rappresentava un operaio, Maccari se lo era portato a Torino da Colle di Val d'Elsa. Per due ore avevamo ascoltato il milite leggere un dialogo pazzesco, infarcito di retorica, con squadristi, sovversivi e un finale con l'immancabile duce. Lo avevamo lodato e lo avevamo consigliato di portare la commedia alla prima compagnia teatrale importante che fosse giunta a Torino.
Il Selvaggio era stato già sequestrato il 31 luglio per un intervento di Farinacci: nella prima pagina del giornale era stata pubblicata una caricatura del gerarca cremonese — il quale, in un discorso, aveva biasimato l'arte moderna — vestito da pompiere. Il linoleum por.tava questa dicitura: « Senza qualche cosa da salvare, senza qualche conculcato diritto da difendere, o ideale da proteggere, Farinacci non può vivere. È una sua vecchia passione, quella del ruolo di mito.
Dossena e Ca-nella non bastano alla sua sete di gloria: egli si sente avvocato di cause ben più alte! E chi mai ha oggi bisogno d'un paladino, se non l'Arte, l'Arte immortale, la grande, la divina Arte dalle trecce al vento, dai seni eretti, dalla bocca di fragola, dagli occhi di cielo? Vogliamo dire l'arte dei Tito, dei Ciardi, dei Sartorio, dei Bistolfi, dei Dall'Oca Bianca; ond e che il paladino appare in veste di pompiere, mentre dagli avelli risorgono i Numi artistici della Vecchia Italia, e svolazzano i corvi in una stecchettiana tregenda: Pesaro, Pasini, Sommi Picenardi... Sembra di vivere nel 1903! Attendiamo la parola di Ida Baccini, il ritorno di Anna Vertua Gentile, l'apoteosi di Carolina Invernizio ».
Ora, però, l'irritazione dei gerarchi sembrava giunta al culmine.
Una discussione che avveniva sulle colonne del Selvaggio tra Camillo PelIizzi e Maccari intorno ai problemi del fascismo aveva urtato Mussolini — fu poi proibito a Mino di pubblicarla in un volumetto che avrebbe voluto intitolare L'ora del paracarro — e le poche righe che seguono ci avevano attirato addosso l'ira del prefetto: « Non siamo d'accordo con G. C. del Bargello sui recenti cartelli per la difesa del prodotto italiano. Saranno un po' di gusto bolscevico, ma sono efficaci, attuali, sobri e vigorosi; il gusto italiano verrà, se si cerchi la fonte d'ispirazione non più nella retorica, ma nello spirito popolaresco. Intanto siamo sulla buona strada: si comincia a dar lo sfratto al decaro-lismo coi soliti muscoli, colle solite pose, coi solitissimi fregi, cordoni, ali, intrecci e volute, gli esse obliqui, il falso romano, il falso classico, il falso barocco. Non è un piccolo passo ». E l'Italia e gli italiani erano tutti una posa, fregi e cordoni
« Chi sa? ».
Aveva dato noia ai gerarchi del partito un grande linoleum che chiaramente alludeva alla mancanza di spirito rivoluzionario e antiborghese nella politica fascista.
Il linoleum aveva questa dicitura: Se ci sei batti un colpo e rappresentava un gruppo di signori e signore disposti attorno a un tavolo per una seduta spiritica.
Infine il Diario di un giovane di Velso Mucci — « vincitore del primo premio nella gara di cattiva condotta da noi istituito fra i giovani » — e una strofetta (Noi del Guf / diciamo Auf) aveva mandato in bestia anche i gerarchi dei gruppi universitari fascisti. Nel numero del 15 dicembre pubblicammo sul Selvaggio un Inno dei guerrafondai scritto (forse in occasione della guerra di Libia del 1911) da Luigi Zucchelli detto Mema, un poeta popolaresco di Colle di Val d'Elsa, autore di innumerevoli « bruscelli », inni, satire, ottave, sestine, e custode del tiro a segno della nostra cittadina. L'inno diceva:
O come fanno questi fannulloni
Che si senton vantarsi della guerra
Che per le maledette sue ambizioni
La meglio gioventù va sotto terra
Non hanno cuore in petto brutti cani
Altrimenti gli scamperebbe il pianto
Si danno il nome Liberali Italiani
Per mandar tanta gente al camposanto
Allor parete Bravi Liberali
Ma per ora voi siete pecoroni
Vi levate il pantan dagli stivali
Col mandare alla guerra i più coglioni.
Il Selvaggio venne stampato il sabato e messo in vendita il lunedì mattina. La domenica Mussolini pronunciò uno dei suoi discorsi più bellicosi, scagliandosi soprattutto contro la Francia e giurando che il popolo italiano era ansioso di correre alle armi. I giornali uscirono con titoli su tutta la prima pagina, neretti, e fotografie di Mussolini ritratto nelle pose più militaresche. Sembrava che noi avessimo voluto alludere al discorso di Mussolini con quell'Inno ai guerrafondai stampato quasi di soppiatto in fondo all'ultima colonna della terza pagina con sopra una fotografia formato tessera di Mema, vero uomo del popolo che portava una camicia senza colletto.
Dopo mezz'ora che il giornale era nelle edicole ci si scagliarono contro prefettura e questura. Il Selvaggio venne sequestrato. Rimediammo subito sostituendo l'Inno con un altro brano di Tempo di guerra, memorie sugli anni del primo conflitto mondiale con le quali Arrigo Benedetti esordiva come scrittore e che poi furono pubblicate in un volumetto nelle edizioni del Selvaggio. Maccari, dopo il sequestro del giornale, fu chiamato a Roma dal segretario del partito che gli fece un lungo, violento rabbuffo.
Durante l'assenza di Maccari, Velso Mucci fu perentoriamente convocato alla sede del Guf. Durante il tragitto Mucci incontrò Primo Zeglio e lo informò della convocazione. In mancanza di Maccari, Zeglio era la nostra guida perchè più anziano di tutti e perchè era « comandante della Piazza di Torino con la qualifica di Gran Capo delle Tribù Allobroghe ». « Vengo con te » disse Zeglio a Mucci.
« Sentiremo che cosa vogliono ». Nella sede del Guf furono subito introdotti in una sala piena di giovanotti i quali presero a picchiarli.
Zeglio e Mucci si difesero come meglio potettero. Infine, quando stavano per essere sopraffatti, visto che la porta della sala era stata chiusa, Zeglio gridò: « Questo è un sequestro di persona. Ce ne renderete conto davanti al tribunale ». Uno dei giovanotti rimise la chiave nella toppa e Zeglio, con un ultimo sforzo, riuscì a raggiungere le scale trascinandosi dietro Mucci.
La sera di quel giorno, dopo cena, Zeglio si recò in un bar di piazza Castello dove il segretario del Guf era solito bere il caffè. Incontratolo lo affrontò. « Ora, da soli a soli, mi renderai conto della tua vigliaccheria » gii disse e lo prese a schiaffi davanti agli altri avventori. Il segretario del Guf fuggì fuori del locale e si diresse verso l'imbocco di via Po, ma ad aspettarlo c'era il fratello di Zeglio il quale, afferratolo per la giacca e spintolo contro il muro, lo colpì duramente al volto con una scarica di pugni. Una settimana dopo, Maccari, Zeglio e io con gli altri amici ci recammo a una conferenza di Giuseppe Pagano Pogatsching sull'architettura razionale: fra il pubblico c'era il segretario del Guf con ¡ suoi accoliti: aveva un occhio ancora tumefatto.
Maccari si era fatto a Torino un gruppo di amici: Italo Cremona, Primo Zeglio, Eugenio Galvano, Velso Mucci, Augusto Mazzetti, Romildo Craveri, amministratore del Selvaggio, Enzo Righetti. Righetti mi raccontò un giorno che suo padre era una ex guardia rossa e aveva partecipato all'occupazione delle fabbriche nell'ormai lontano dopoguerra. Si era portato con sè il figlio. Enzo era rimasto alcuni giorni nella fabbrica occupata. Gli operai erano armati di mitragliatrici e, essendo lo stabilimento vicinissimo alla ferrovia, avevano scaricato le loro armi sui treni che passavano. Poi, senza sparare un solo colpo, si erano fatti cacciar fuori dalla fabbrica dalle guardie regie.
Anche io feci ben presto amicizia con quei giovani, alcuni della mia stessa età. Soprattutto simpatizzai subito con Zeglio, Cremona, Galvano e Righetti che veniva meno spesso degli altri al Selvaggio, ma vi portava, nonostante non fosse un operaio, un soffio di realismo proletario. Con Zeglio e con Galvano andavamo in giro per Torino finché non conobbi la città alla perfezione, i suoi musei, i suoi edifici storici, e ancora oggi la so percorrere in tutte le sue strade senza bisogno di aiuti. Mangiavamo, Maccari e io e qualche altro, in una trattoria gestita da due coniugi di Alto-pascio, posta non lontano dalla sede del Selvaggio. Il pomeriggio lo passavamo a leggere in albergo e poi al giornale. Mentre io ero a Torino, un giorno arrivò un pacchetto che conteneva alcuni libri di Piero Gobetti accompagnati da un biglietto anonimo scritto con una calligrafia femminile, nel quale ci si ringraziava per una difesa che avevamo fatta di Gobetti per un insulso, sconcio attacco rivoltogli da Pitigrilli.
Presi io quei libri perchè non avevo letto nulla di Gobetti, pure avendone udito spesso parlare anche da un mio zio che aveva vissuto a lungo a Torino e lo aveva conosciuto. Lessi i libri e, debbo confessarlo, non mi sembrò di avere incontrato un grande, originale pensatore politico. La stessa impressione l'ho ricevuta più tardi a una seconda lettura, e questa volta completa, delle sue opere. Morì troppo giovane per potere realizzarsi completamente.
Quello che molti, forse senza averlo letto, dicono fosse stato Gobetti a me sembra che sia stato Antonio Gramsci.
La sera dopo cena Maccari e io e anche Malaparte finché rimase a Torino, andavamo al cinematografo, nella lontana periferia: ho ancora memoria di un cinema tutto di legno e vecchissimo.
Vedemmo più volte Marocco con Marlene Dietrich e Sinfonia Nuziale e tutti i film che avevano per protagonista Von Stroheim che tanto piacevano a Maccari. Qualche notte Maccari, io, Cremona e Craveri, ci recavamo all'Alfieri, un tabarin nel centro della città, dove ragazze mezze nude venivano a ballare fra i tavoli.
Cremona e Craveri portavano la bombetta e cappotti neri con il bavero di velluto. Dopo un po' Maccari si metteva a fare disegni pornografici, uomini dai sessi lughissimi che compievano le più singolari giravolte e ai quali stavano attaccate donnine di ogni età, da giovani pudiche e graziose a vecchie bagasce. I camerieri erano avvinti da quei disegni e Maccari glieli regalava, senza naturalmente firmarli. Una notte che nell'Alfieri era finita la carta, nonostante il freddo intenso che faceva fuori, un cameriere, indossando la sola giacca bianca, corse fino alla Stazione di Porta Nuova e tornò con due buste di fogli da lettera che Maccari ben presto terminò. Erano disegni spiritosi, pieni di fantasia e di invenzioni, per nulla sconci.
Qualche sera, una o due volte la settimana, una volta ogni quindici giorni, senza una regola fissa, nel tardo pomeriggio, Maccari giungeva al Selvaggio tutto elegante, vestito di turchino, con la camicia di seta pura, le scarpe brillanti, una bella cravatta e il cappello nero floscio. Teneva in mano una grande scatola di gianduiotti che chiudeva accuratamente nel cassetto della sua scrivania. Diceva che avrebbe cenato da solo.
Galvano e io giuravamo che quelle sere Maccari andava a donne. Chi sa perchè, forse perchè eravamo ancora ragazzi, la cosa ci riempiva di allegria. Ne parlavamo a lungo.
Qualche volta, mentre lui era a cena, entravamo nella sede del Selvaggio — era facile aprire la porta che dava sul pianerottolo delle scale; bastava girare la maniglia in una determinata maniera — forzavamo la serratura della scrivania di Maccari e prendevamo la scatola dei cioccolatini che mangiavamo sghignazzando, mentre pensavamo all'ira di Mino quando non avrebbe più trovato il dono per la sua bella. Talvolta si arraffava anche disegni e incisioni che regalavamo alle ragazze che conoscevamo, perfino a quelle di un postribolo dove andavamo spesso.
Anche per la Vita di Pisto avemmo noie con la prefettura. Sembravano troppo audaci al prefetto alcuni episodi narrati nel libro come quello nel quale Pisto mura, con la calcina, la fica della ragazza che lo aveva tradito, lo irritava la foga anticlericale e antiborghese del racconto. Dove avevo scritto « non avevano mai cantato nè Giovinezza o Bandiera rossa o l'Internazionale » ci fecero togliere quest'ultima parola. Non erano tanto propensi a farci pubblicare la Vita di Pisto, ma noi aggirammo l'ostacolo aggiungendovi una fine banale. Per vendicarsi Maccari stampò il libretto — duecento esemplari — con una copertina rossa e una fascetta celeste, i colori dei garibaldini. Sulla fascetta aveva scritto: « Questo libro ha provocato in poche settimane sommosse e rivoluzioni nel Massachussetts ».
Maccari non si limitava a far polemica attraverso il giornale o i libretti che pubblicava, ma cercava di dare scandalo, di prendere in giro gli ambienti altolocati della impenetrabile Torino. Il Caffè San Carlo, non toccato più dal Settecento, con i suoi grandi specchi e i suoi preziosi velluti verdi, frequentato nel pomeriggio da sparuti gruppi di vecchie aristocratiche, tutte agghindate e piene di ori, con l'occhialetto, e da qualche vecchio rimbambito con la caramella all'occhio, era il suo terreno di battaglia. Indossando un grosso cappotto marrone a quadrati rossicci che gli arrivava fino ai piedi vi entrava nelle ore più impensate del pomeriggio. Traversava tutto il caffè strisciando sui ginocchi. Giunto alla parete di fondo prendeva una sedia, ci saliva sopra, si toglieva il cappotto e lo appendeva a un attaccapanni. Poi, sempre strusciando sui ginocchi, veniva a sedersi al tavolo attorno al quale noi lo aspettavamo. Magari al tavolo accanto c'era, fra un gruppo di vecchie aristocratiche, il prefetto. Le signore guardavano inorridite Maccari traverso l'occhialetto, e si agitavano smaniose e scandalizzate finchè, quando Mino aveva compiuto l'operazione inversa, ce ne andavamo.
Non solo Cremona, Zeglio, Galvano, Mucci e gli altri facevano compagnia a Maccari. Venivano al Selvaggio modelle, pittrici e numerosi giovani che cominciavano a interessarsi di pennelli e di colori.
Da tutti Maccari ascoltava le aspirazioni e i pareri, a tutti dava consigli e quando trovava in qualcuno un po' di autenticità, di freschezza, di talento, ne era felice. Li incitava a un lavoro continuo — ha sempre odiato i dilettanti — a dipingere, a disegnare, a incidere il legno e il linoleum. Se penso che già nel 1923, a Colle di Val d'Elsa, usava il linoleum, oggi tanto in voga specialmente in America, credo di poter affermare che egli è stato il primo in Italia, e forse nel mondo, a scoprire i pregi di questo materiale, soprattutto la sua morbidezza e compattezza, per le incisioni.
Sarebbe, in ogni modo, una ricerca da compiere.
Una volta messisi al lavoro, Maccari aiutava questi giovani a scoprire le proprie attitudini in un campo invece che in un altro, li incitava ad approfondire la loro personalità di artisti o di scrittori. Sapendo che ognuno nasce come può e non come vuole, scusava, paziente, i loro errori e non solo nel campo dell'arte; e mai un suo parere, un suo rimbrotto, un suo incitamento cadevano invano. Dietro al suo sguardo ironico, alla parola facile, alle battute sprezzanti c'è sempre stato in Maccari e c'è tuttora un uomo pieno di tenerezza, di buon senso, di amore per il prossimo.
C'è chi lo ritiene un cinico menefreghista. Posso testimoniare, e lo conosco da quando avevo otto anni, che è vero il contrario.
Se penso alle migliaia di disegni, di caricature politiche e di costume, di legni incisi e di linoleum, di litografie, di acqueforti, di puntesecche e di dipinti, stupisco ancora che gli sia rimasto tanto tempo per aiutare gli altri, tra i quali, uno dei primi, sono stato proprio io. Di uomini altruisti e buoni come lui, nella mia vita, ho conosciuto soltanto Ottone Rosai.
Torino era una città diffidente e difficile a compren-dersi anche per una persona che ama il contatto umano come me ed è sempre riuscita a superare barriere che sembrano invalicabili. Ma una volta accolti in una casa, in un gruppo di amici si rimaneva stupiti della soigliatezza dei piemontesi, soprattutto delle donno, del loro carattere deciso, forte e coraggioso. Ricordo una sera che, in automobile, traversavo il centro cittadino in compagnia di un banchiere, un uomo ricco e di nota fede liberale e antifascista. Dinanzi all'ingresso di un tabarin sfarzosamente illuminato, mi aveva detto, cambiando improvvisamente discorso: « Anche di lì sono usciti nel 1921 i giovani in smoking che hanno assassinato gli onerai e ne hanno trascinato i cadaveri per le strade di Torino legati con una corda dietro le loro automobili di lusso. Ma verrà il giorno, ne sono sicuro, che pagheranno i loro delitti ».
Una mattina mentre passeggiavo per il centro assistetti a un episodio inconcepibile in altre città. Un gruppo di operai disoccupati si mise a manifestare davanti agli uffici dell'assistenza comunale fascista. A un tratto giunse nella strada il principe di Piemonte che sedeva in un'auto scoperta in compagnia del suo aiutante di campo e dell'autista. Gli operai circondarono l'automobile che si fermò. Gettarono addosso al principe, che era impallidito, i buoni per ottenere una minestra gratuita gridando: « Vogliamo lavoro, non l'elemosina ».
Righetti, che abitava in un quartiere popolare, mi raccontò che, durante una esercitazione dei corsi premilitari, un giovane operaio era stato offeso da un ufficiale della milizia. Il giovane aveva replicato con violenza e l'istruttore lo aveva preso a calci nel sedere. Allora il giovane si era tolto da una tasca dei pantaloni una bandierina rossa e l'aveva sventolata sotto la faccia dell'istruttore. La sera tutta la strada nella quale abitava il giovane si era addobbata di rosso. C'erano voluti i soldati per far ritirare quelle bandiere e quei drappi.
Ritrovai questa Torino alla fine del 1943. Mi recavo in quella città per visitare un amico malato. A pochi chilometri da Torino il treno si fermò per un allarme aereo. I viaggiatori si spaventarono. Chi pregava, chi singhiozzava, chi inveiva ad alta voce contro gli americani e gli inglesi. Ero in un vagone di terza classe. Un operaio, che era salito a una trentina di chilometri da Torino, guardava i compagni di viaggio con ironia; poi scrutava il cielo, scoteva la testa e mi fissava a lungo. Gli sorrisi. A un tratto mi disse: « Questi non capiscono che più bombe cadono, meglio è. Una casa, un'officina che crollano sono tanti minuti di meno per la vita del fascismo. Mi ascolti: io vado in fabbrica con la speranza che oggi o domani venga distrutta da un bombardamento. E se muoio, dirà lei? Se ci lascio la pelle, pazienza. Anche la morte è migliore di questi cani rabbiosi ».
Poi Maccari partì da Torino. Malaparte era già stato da tempo cacciato da direttore della Stampa. Si era messo in urto con Mussolini e con Agnelli. Aveva perfino creato un premio letterario della Stampa e, per far dispetto a Mussolini, lo aveva fatto assegnare a Corrado Alvaro che non era iscritto al partito ed era un noto, irriducibile antifascista. Durante un ultimo colloquio che avevano avuto per telefono, il senatore Agnelli aveva detto a Malaparte che se avesse rimesso piede a Torino lo avrebbe fatto arrestare dalla polizia. Malaparte gli aveva risposto: « Ritornerò, senatore, ritornerò. Tornerò a Torino per i suoi funerali ».
Si raccontava che Malaparte, come direttore, e Maccari, quale redattore-capo, presentatisi alla Stampa, avevano riunito i redattori in una sala. Per corbellare quell'ambiente smorto e grigio, colmo d'invidie e di rancori, Malaparte, che era alto, si era messo in piedi dietro un tavolo con alla sua destra Maccari, che è invece di bassa statura, ritto su una seggiola. Stando così avevano spiegato ai redattori allibiti quale era il loro programma per il giornale.
Dopo la partenza di Malaparte Maccari rimase redattore capo. Il re dava ogni anno un ricevimento alla più pura e autentica aristocrazia italiana. Di questa cerimonia non veniva passato ai giornali nessun resoconto particolareggiato. Non vi erano ammessi i giornalisti. La Stampa pubblicava tutti gli anni l'elenco dei presenti a Corte preceduti dalle loro qualifiche. Anche quell'anno l'elenco fu inviato a Torino dalla redazione romana ed era lo stesso dell'anno prima: non si erano preoccupati se fossero avvenute variazioni. Ma nel frattempo era morto un principe illustre. Che fosse dato presente al Quirinale non poteva passare inosservato a Torino, culla dei Savoia e dell'aristocrazia savoiarda, e il caso destò un vero e proprio scandalo. Per dare soddisfazione alla Casa Reale, i padroni della Stampa chiesero a Maccari di rassegnare le dimissioni da redattore-capo. Lo stimavano, ammiravano il suo ingegno, e gli proposero di rimanere al giornale: gli avrebbero raddoppiato lo stipendio e lo avrebbero inviato subito all'estero. Ma Mino rifiutò e se ne andò dal giornale. Rimase un po' di tempo a Torino, ma non gli piaceva vivere in quella città senza un lavoro: in un anno, del resto, aveva rivelato a loro stessi e agli altri qualche giovane di talento. Quando vidi imballare i mobili della sua casa me ne tornai a Colle di Val d'Elsa. Maccari andò ad abitare a Roma. In quello stesso anno lui e sua moglie si costruirono la villa che anche oggi posseggono al Cinquale, in provincia di Massa, dove Mino trascorre parecchi mesi dell'anno impegnato nel lavoro che preferisce e che non riesce mai a stancarlo. Lo si sente ancora dire: « Bravo giovanotto, queste litografie sono ottime. Ti sono più congeniali delle incisioni. Avevo ragione io. E ora sotto, non vivere sugli allori, non ti mettere a fare il pelandrone ».