“Salvador Dalì: un Dioscuro alla corte di Shakespeare” di Ettore Mosciano.
(da "Presenze" anno III n.1- Quindicinale di attualità culturali - 15 gennaio 1978)
Le prime esperienze pittoriche di Dalì, studente a Madrid, recano le tracce della sua ammirazione per lo spazio dinamico futurista (1920). Successivamente attratto dai dipinti metafisici di De Chirico e di Carrà e dalla possibilità di creare nuovi spazi prospettici, per via dei volumi, con il Cubismo, egli finisce inevitabilmente per approdare al Surrealismo.
I “papiers collés” di Ricasso, il manifesto surrealista di Breton, le forme biomorfiche di Mirò e gli spazi immensi di Tanguy influenzano, quindi, buona parte del lavoro dei suoi anni maturi. Sono, questi, gli anni in cui si lega d’amicizia con Garcia Lorca e Luis Bunuel.
Nel 1934, sconfessato da Breton, Dalì abbandona il gruppo parigino surrealista poiché non ne condivide l’aspetto politico ed altre situazioni di comune lavoro. Il suo spirito caustico e violento non è soddisfatto dalla registrazione passiva del sogno e dello stato inconscio, provocati automaticamente, che sono elementi peculiari del Surrealismo.
Egli cerca, allora, un elemento attivo e critico per materializzare le immagini surreali che il suo cervello fotografa con una prospettiva esasperata; nasce, così, l’aspetto paranoico-reattivo che viene definito dallo stesso Dalì come “un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critca di fenomeni deliranti”.
La paranoia-critica daliniana, concretatasi in un carattere da megalomane, è una dichiarata e sistematica delusione di trovarsi nel mondo attuale; ed è per questa ragione che Dalì rende ossessivo il suo folle soggettivismo.
Il suo, quindi, è il desiderio di un uomo che irrompe nel mondo e ne erompe per cercare di costruirne uno diverso (un concetto tipicamente indicato nel quadro “Osservando la nascita dell’uomo nuovo” in cui, una madre, indica al proprio bimbo l’essere umano che sta sprigionandosi da un globo terrestre esploso).
Questa reazione alla realtà esteriore si presenta a sovvertire non tanto l’immagine oggettiva delle forme quanto il rapporto logico che tra esse intercorre, in nome di una realtà superiore galleggiante in un cosmo segreto, negato alla conquista razionale e recuperabile soltanto attraverso un processo del subconscio.
In buona parte delle sue opere, in special modo in quelle precedenti l’ultimo periodo, Dalì esalta ogni specie di originalità, di audacia, di estrema violenza. Il caos, l’amorfismo ed il caso marciano parallelamente alla creazione, alla forma ed alla necessità.
I valori pittorici tradizionali (forma, colore, misura, volume e posizione) lui li ricompone in una disposizione alogica, con conturbanti figurazioni assurde, libero da qualsiasi preoccupazione per la morale borghese.
L’espressione della sua realtà “superiore”, comunque, può essere identificata per mezzo del suggerimento dato allo spettatore di arrivare al senso sognante, paranoico, attraverso un viaggio interpretativo fra elementi che non sono né stlizzati né resi astratti, ma che appartengono ad una natura semplice, quella comune a tutti i mortali.
Questa manifestazione di libero sfogo acquista, però, nel caso di Dalì, valore d’arte e diventa realtà assoluta, surrealtà, combinazione cioè di due stati apparentemente contraddittori, il sogno e la vita delle abitudini concrete, proprio perché riesce ad individuare le basi di riferimento psichico scientificamente comuni a tutta l’umanità. La sintesi espressiva, quindi, diventa Arte perché ha valore universale.
Intorno al 1943, egli dichiara di non essere più interessato alla psicopatologia e di volere riavvicinare la cultura rinascimentale per riesprimere modernamente le interrelazioni uomo-natura sulle basi delle ultime scoperte della scienza. Da questo momento, infatti, i suoi dipinti recano la combinazione di soggetti religiosi e scientifici e comprovano un’accurata ricerca escatologica, come si può osservare ne “Il Cristo di S. Juan de la Cruz” del 1951, ne “La Cena” del 1955, ne “Il sogno di Cristobal Colon” del 1958-59, ecc., riscattando qualche negativa impressione data dalla sua pittura precedente: quella a sfondo macabro come “Lo spettro del sex-appeal” del 1934 e “Autoritratto con bacon asado” del 1941.
E’ inevitabile, come abbiamo visto, riscontare nel travaglio artistico di un autore, opere più o meno piacevoli; ma è sorprendente incontrare, nell’approdo della esperienza di questo artista, gli incanti metafisici della sua figurazione pittorica. E qui, mi si consenta un piccolo sfogo.
La critica ufficiale e i docenti delle Scuole d’Arte (che si scervellano e trovano, da veri certosini, i significati nei fili colorati e nelle macchie della cosiddetta Arte moderna, e che hanno valutato il Surrealismo e Dalì come fenomeni capricciosi da passare sotto gamba) dovranno ben presto rivedere le loro posizioni critiche nei confronti di un autore che, per evidenti tracce del suo primo periodo (“Piaceri illuminati” del 1929 e “Ricordi d’Africa” del 1938, ecc.), ci ha regalato significative espressioni di un misticismo critico di tipo rinascimentale tra le più esemplari ed interessanti della nostra epoca. E basta pensare al caos dell’epoca moderna per apprezzare nell’artista il valore profetico. Ma forse la critica ufficiale, convogliata a nozze con la classe marxista prossima dirigente, crede ancora di potere isolare certi artisti e certa Arte autorevolmente indipendenti, dimenticando che, comunque vadano le cose, i valori artistici saranno sempre recuperati per una storia delle culture e non della politica.
Per ultimo mi preme segnalare quanto lo spazio prospettico del Dalì sia ancora legato alle prime impressioni metafisiche di De Chirico e di Tanguy; con la differenza che mentre per De Chirico gli ambienti, gli sfondi e gli oggetti sono inquadrati in una prospettiva di architettura classica, con risultati di bellezza greco sofoclea per contemplazione apollinea, in Dalì le aree hanno i contorni di una natura in cui l’uomo, fattosi Dionisio, vive tutta la sua carica vitale per una bellezza eschileo-dinamica o d’epoca shakespeariana.
Il quadro “Dalì a sei anni che solleva la superficie dell’acqua per vedere un cane dormire all’ombra del mare”, ha la magia di un sogno attraverso il quale l’autore ci rende capaci di estrapolare una energia nascosta (si guardi il cane addormentato sotto la superficie del mare sollevata come un lembo di lenzuolo) per dimostrarci così che, in una natura morta di paesaggio marino con scogli, la vita c’è anche nelle cose che apparentemente vita non hanno. E questo significa, pittoricamente, anche estrapolare poesia.
L’universo popolato di orologi molli ed altri oggetti deformati da una semiliquefazione, come in “La persistenza della memoria” del 1931, è il risultato di un processo critico-artistico che vuole affermare il prevalere della memoria (ricordanza) sul tempo, con una operazione in cui l’intelletto umano rivalutato ai suoi più alti poteri fa dell’essere umano l’elemento più significativo dell’universo.
Il suo panteismo di cantore della vita, in “Leda atomica”, si ribella contro le autorità scientifiche per lo spreco delle materie prime usate nella produzione di energie nucleari e ci indica, criticamente, che a tutt’oggi l’essere-oggetto soggetto che dovrebbe occupare la nostra ricerca scientifica s’identifica ancora nella figura mitica di una donna (essere biologico) come tante altre: Leda, appunto; una Leda che ha ancora tutta la complessa struttura di un organismo biologico da studiare.
Amore per la vita, quindi, quella di Dalì. Un amore che si unisce alla bellezza metafisica specialmente nelle opere del suo ultimo periodo, come in “La pesca del tonno”. I piccoli pesci guizzanti dalle reti volano in alto, a confondersi con gli spruzzi variopinti dell’acqua del mare battuta dai pescatori durante la mattanza del tonno. Una lotta tra predatori e predati nello sfavillio di colori dei visi, dei pesci e delle braccia, con tuttas l’esultanza materiale e spirituale dell’artista; ed è quanto basta per rivolgere ad un Maestro tutta la nostra ammirazione.
“La bellezza serà commestibile o no serà”, una frase dello stesso Dalì, non ha più il valore di un fonema astratto ma è divenuto, in questo caso, un atto concreto.