Impressioni, convinzioni, passioni
Nella critica d'arte si è finalmente preso coscienza del valore intrinseco di quell'espressione peculiare, ma non certo minore, che è l'incisione, sì da considerarla e valutarla come entità a sé. Si è riconosciuto in special modo l'identità del linguaggio dell'incisione calcografica, tecnica ricca di una sua propria vocazione, feconda di infinite possibilità sperimentali, mezzo autonomo per l'espressione di un pensiero estetico. Un'altra caratteristica, che ha trovato concordi con gli esegeti anche tutti gli artisti, è stato il netto rifiuto di ogni naturalismo ottocentesco: la convinzione di trovare la valenza di un'opera d'arte non nella rappresentazione dei contenuti, bensì nelle soluzioni formali e stilistiche. Nella sintesi di spazi, ritmi, luci, cromie (anche il bianco ed il nero sono colori!), e soprattutto nell'invenzione, nell'atmosfera, nella testimonianza.
C'è una caratteristica fondamentale, come si conviene ad ogni artista autentico, che lega tutta l'opera, pittura incisione scultura, di Tino Aime. È il silenzio.
A ben intendere, non l'assenza di suoni, che vi senti il vento sibilare e frinire le cicale, stormire le fronde e gracchiare i corvi, battere una pietra e frusciare una biscia. Ma la mancanza di brusii discordi, estranei alla natura, tanto che a guardar fuori dalle sue finestre puoi ascoltare la neve che cade, la luna che ghiaccia, il gelso che si spezza.
Ho sempre guardato a Tino Aime come a un artigiano, quell'artifex ormai quasi perduto nella notte dei tempi che riunisce in sé il pensiero e l'azione, la fantasia creativa che nasce spontanea da un'emozione e la capacità di tradurla in qualcosa di visibile. Di costringerla in una forma. Di dare, per dirla alla Croce, all'astrattezza del significato la realtà del significante. Specialmente nella sua opera incisa, o, meglio, nella sua azione di incisore.
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Lavorare una lastra di metallo per farne una matrice calcografica è difficile. Sia che si operi come Bartolini, che incerate un paio di lastrine se le infilava nella tasca del giaccone di velluto ed andava in bici per campi e colline finché non gli veniva l'estro - che fossero le corna arcuate di un cervo volante, le piume sparse di un passerotto morto o le grazie malcelate di una lavandaia china alla gora a fornirglielo non importa, quattro linee buttate giù d'istinto come un appunto, ed il capolavoro era bell'e fatto -, o come Calandri, che disegnava e grattava via, e stendeva nuovamente la cera due, tre, quattro, sei volte sul metallo martoriato dalle innumeri morsure prima di raggiungere la fluidità naturale di una linea, la morbidezza di un'ombra, la spontaneità di un gesto, la tecnica è soltanto un accessorio alla coscienza delle infinite potenzialità espressive che il mezzo può rivelare. Sta qui la capacità e l'abilità di Aime: aver imparato ad imprimere sul foglio che esce dal torchio le sue sensazioni. Ancora di più: i suoi sentimenti. Usando la linea diritta, quella dei rami dei gelsi, dei salici, dei pruni e delle betulle, dei pali e dei muri, per affermare, per sostenere, misurare le distanze, prendere coscienza della situazione; avanzando a piccoli segmenti affiancati per confermare, ribadire, stabilire, acquistare ragione; tagliando con il gesto arcuato, esasperato fino a raggiungere il cerchio, del sole o della luna, per fissare l'aura, definire la scena, ribaltare la prospettiva; intervenendo infine con l'acquatinta per ammorbidire, persuadere, insinuare, edulcorare, bloccare l'attimo cruciale, la perfezione e l'assolutezza dell'acme.
Sono rari i segni incrociati, il racconto procede per gradi, per simboli. Tino non illustra, è questo il
suo pregio assoluto, ma dà immagine ad un'emozione. La natura, la montagna (non più un mondo di vinti, di miseria che uccide. Per lui una realtà preziosa da difendere, da conservare perché ragione ed espressione di vita, di valori, di ricchezza incommensurabile), il paesaggio - e come non cedere al fascino di una nidiata di tetti che rifrangono i cristalli della luna, non provare nostalgia osservando la vecchia bici sghemba e sbilenca, non aver voglia di toccare le bacche violastre del ginepro e solferine della rosa - la valle, sono vivi. Non soltanto esistono, inerti, ma pulsano, respirano, possono soffrire.
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Lartista rivela l'uomo: Tino non ha saputo, non ha voluto separarsi dalle sue radici, dalla sua essenza. I suoi fogli raccontano impressioni, rivelano convinzioni, radicano passioni. Via via, nel succedersi degli anni e delle cartelle, si nota un'assenza sempre più accentuata di descrizione, una rarefazione anche di segni, nel timore quasi di inquinare l'idea. I trapassi cromatici sono ormai esclusivi dell'acquatinta che appoggia come frequente alternanza alla secca morsura dell'acquaforte. Osserviamo "Il pioppo", "I castagni", "I faggi": si stagliano possenti, quasi emergendo da una sofferta realtà contadina, ancora memori del dio Pan, ma consapevoli di una dolorosa realtà che li sovrasta; anche "Le betulle", "I ciliegi", "I pini d'Aleppo" sembrano baluardi, ultimi di una "Terra di mezzo" aggredita da un cancro assurdo chiamato "progresso"; così come le rocce, quella "Vigna di pietra" che l'artista più che incidere tocca lievemente, come su una tastiera invisibile, giocando con le ombre che schiarisce nel primo piano ed infittisce sui torrioni merlati del fondo che paiono congiungersi con la notte; e ancora, in "La notte di San Lorenzo", nelle cenge e nelle coste oltre le case, appena sotto la luna, da dove riesce a far scoccare una luce che le agglutina estenuandole. Un accenno particolare infine alle piccole lastre con gli "Insetti", deliziose ed affascinanti, emblematiche, trepidanti, da avvicinare come lepidezza ai pizzi ed ai ricami che accompagnano la frutta delle nature morte, "La melagrana" o i "Pocionin".
Sono pagine di diario, intime e particolari; note in punta di lapis da lasciare a margine di una foto o di un libro.
Sono soprattutto pagine di storia.
Gianfranco Schialvino