Nato a Roma nel 1924, Renzo Vespignani è cresciuto in una delle più povere borgate romane, il Portonaccio. Qui, durante i mesi di Roma nazista, alla macchia come tanti suoi coetani, comincia a disegnare raccontando in centinaia di piccoli fogli gli orrori dell'occupazione, il paesaggio sporco e patetico della estrema periferia, le rovine dei bombardamenti, il dramma degli emarginati, dei reduci, degli sciuscià. Il suo lavoro, tra il '44 e il '48 e un documento dell'Italia difficile, “l'accanito, monco, gracile, maldestro risorgere del piacere in mezzo alle rovine, come un filo d'erba tra i sassi” (M. Sager).
La sua prima mostra, nel 1945, a Roma, lo rivela come caso anomalo e inatteso nel panorama della tarda scuola romana: il suo segno crudele, “tedesco”, fortemente ispirato da Grosz e da Dix, segna la fine di quel clima estenuato, sfatto e profumato che aveva visto come massimi protagonisti Mafai e Scipione. E intanto, in quei mesi, la vita culturale della capitale riprende lentamente: Vespignani collabora con disegni e scritti alle riviste che si pubblicano precariamente, “Domenica”, “Folla”, “Mercurio”, “La Fiera Letteraria”. Se il suo linguaggio sembra derivare dai classici del secondo espressionismo, il suo mondo resta tipicamente romano, meno violentemente politicizzato rispetto a quello dei suoi modelli, e venato di pietà, di tenerezza, persino di un acre lirismo, uno sguardo, il suo, non molto diverso da quello di Rossellini e di De Sica.
Per molti anni il mezzo espressivo da lui preferito sarà il bianco e nero dell'inchiostro o dell'acquaforte (tecnica che già pratica con naturale maestria): mezzo “povero”, cinico, duro, come le cose da ricordare di quei tempi calamitosi. Ed è già nelle sue prime prove la scoperta di una dimensione urbana, che non è soltanto paesaggio, ma livello e qualità diversa del vivere, intuizione dei guasti irreparabili che si vanno producendo nel tessuto della società italiana. Questo tema in forme più o meno esplicite, e con diverse mediazioni narrative, resterà sempre al fondo del suo operare. Sì che la sua pittura sembra accompagnare criticamente la storia degli ultimi trent'anni, dalla ricostruzione deviata, alle illusioni del consumismo, fino alla catastrofe dell'urbanizzazione selvaggia e alla conseguente morte della residua cultura contadina.
Nel 1956 fonda con alcuni amici architetti, letterati, registi, la rivista “Città Aperta”, che esprime il distacco delle nuove e inquiete generazioni dalla agiografia sclerotizzante del movimento neorealista. Sono anni, questi tra il '56 e il '59, che segnano per gli intellettuali un difficilissimo, tormentoso passaggio dagli entusiasmi e dalle speranze del dopoguerra alla piatta realtà dell'Italia “arricchita”: una caduta verticale dei valori e delle attese. E Vespignani li documenta con una pittura sempre più buia, che sembra sfiorare la spettralità e la morbosa inorganicità dell'informale: se le sue inclinazioni al racconto e all'evidenza realistica resistono, sono tuttavia nascoste da una penombra angosciosa, come se la lucidità dell'autore si smarrisse insieme a quella di tutti gli uomini. Ma nelle tenebre verdastre e acidule della sua pittura, è il terrore di Algeri, di Parigi martoriata dai “plastiquers”, delle risaie del Vietnam. Nel 1963, insieme ai pittori Attardi, Calabria, Ferroni, Guerreschi, Guccione, Gianquinto, e ai critici d'arte Micacchi, Del Guercio, Morosini, fonda il gruppo “Il Pro e il Contro”, che diventa subito un punto di riferimento per i nascenti esperimenti neofigurali. L'attività svolta dal gruppo attraverso numerosissime mostre tematiche, dibattiti, articoli, s'insinua nel vuoto aperto della improvvisa crisi dell'esperanto informale e delinea la possibilità di un linguaggio pienamente cosciente e responsabile, la figura del pittore come intellettuale impegnato a influire direttamente sul tessuto sociale. È a partire da questi anni che Vespignani recupera con sempre maggiore convinzione il carattere “positivo” della sua ispirazione: la fiducia nell'immagine evidente corposa, nella possibilità di significare e colpire attraverso una rappresentazione letterale degli oggetti e degli uomini. Cose ed uomini che si fanno, nei suoi quadri, metafora, simbolo, elementi di una esplicita parabola. E sul piano del linguaggio sembra prevalere, come mai nella sua lunga esperienza, la forza del colore: che, sempre appoggiato alla nervosità del segno, esplode con accensioni violente.
Dal 1969, Vespignani lavora a grandi cicli pittorici: Imbarco per Citera (1969), un “affresco” del ceto intellettuale coinvolto nella crisi del '68, Album di Famiglia (1971), polemica concentrazione dello sguardo sul mondo quotidiano dell'autore, Tra due guerre (1973-75) analisi dell'ideologia autoritaria e perbenistica della piccola borghesia italiana, presentato per la prima volta nella Galleria d'Arte Moderna di Bologna. Come mosche nel miele (1984) dedicato al mondo pasoliniano, presentato a Villa Medici a Roma, e quindi in spazi pubblici in varie città italiane.
L'attività di illustratore risulta, a volte, particolarmente congeniale alla sensibilità fortemente letteraria di Vespignani: la “Question” di Alleg, i ”Racconti” di Kakfa, il “Decameron” di Boccaccio, le “Opere Complete” di Majakovskij, i “Quattro Quartetti” di Eliot, i “Sonetti” di Belli, il “Testamento” di Villon (1976), le “Poesie” di Porta, la “Cantica dell'Ecclesiaste”, poesie e prose di Leopardi sono i testi che hanno fornito gli spunti per le sue realizzazioni più notevoli.
Importante anche la sua attività di scenografo: “I giorni contati” e “L'assassino” di Elio Petri, “Maratona di danza” e “Le Bassaridi” di Hans Werner Henze, “I sette peccati capitali” e “La madre” di Bertolt Brecht, “Jenufa” di Janacek.
È infine fondamentale, per una corretta valutazione della sua personalità, la nutritissima opera di incisore: più di quattrocento titoli in acquaforte, vernice molle e litografia.