Luigi Carluccio, 1976
Mi piace immaginare che dedicando questi quattro fogli a Le stagioni, allo sviluppo cangiante del corso di un anno, al puntuale e consolatorio ritorno degli aspetti fondamentali della natura, Barbisan abbia voluto concentrare, anzi contrarre in un breve spaziomateriale ed in alcune immagini essenziali, in una sola esperienza le stagioni della sua vita, tutto il suo paziente lavoro. Che abbia anche voluto ripercorrere l'itinerario della ricognizione minuta, continuativa ch'egli conduce da quasi mezzo secolo nell'universo della sua poesia, fatto di realtà e di infiniti segni metaforici e metamorfici.
Questi quattro fogli riassumono infatti come in un largo panorama, come una presa di coscienza simultanea, tutto il mondo di Barbisan; la sua geografia e la sua presenza fisica, accampata nel cuore della terra trevigiana: i fiumi, i canali, i coltivi, gli orti, i boschi, le vigne, le case rustiche, le stanze contadine e gli oggetti nelle stanze, quasi araldicamente riassunti dal canestrello di giunchi dentro il quale l'artista sistema trionfi di frutta e di fiori. In ognuno di questi fogli è possibile infatti riconoscere, quasi in trasparenza, per sovrapposizioni leggere, per ammiccamenti improvvisi, alcuni momenti di altre lastre più antiche; il fregio di Fiori del 1936: per esempio l'intrico sottile dell'Orto del 1955; la Pineta di Torre di Fine del 1957; la Vigna del 1960; il cuore del girasole nel Cestino del 1963; la neve cristallina di Inverno del 1951. Ricondotti però, quei momenti, alla sensibilità poetica ed alla finezza tecnica d'oggi, come son venute maturando in tanti anni di esperienze, di intima tenace partecipazione dell'artista agli impegni snervanti dell'acquaforte; curvo sulla lastra a cercare di volta in volta il luogo più avanzato dell'intimità misteriosa che si stabilisce tra la punta del bulino, la morsura degli acidi, la pressione del torchio e la superfice della matrice; tra l'idea, l'icona ancora astratta nel pensiero e la figura nascente. Attento anche a far sì che il segno e la sua impronta diventino una rivelazione ed al tempo stesso una provocazione di luce.
La luce trepidante, formicolante, delle incisioni di Barbisan, a partire dai segni brevi, dai guizzi insistiti con i quali l'artista incalza l'epifania delle cose e la fruga, la rovescia come un campo arato. La lamella di luce, anzi, che scendeva obliqua, accompagnando da destra a sinistra, da sinistra a destra il tratteggio fitto e irrequieto sino a depositarlo sugli esili tralicci, sulle aeree reti che sostengono il disegno dell'immagine: che si interponeva, solidificando e al tempo stesso rarefacendo la coltre d'aria divisoria tra un piano e l'altro della rappresentazione; la luce, insomma, alla quale Barbisan ha sempre rapportato le sensazioni provocate dal fatto di esistere e di confrontarsi come un mondo esterno, delicatamente, tenacemente amato.
La stessa luce veneta dei Canaletto e dei Tiepolo, che rabbrividisce sugli specchi dell'acqua, fiume, canale, laguna, e scivola sul rovescio delle cose, erba, scorza, polpa, è diventata nelle ultime acqueforti, e in questo mazzetto delle Stagioni, un pulviscolo fine, dorato, al quale a fatica si oppongono, divenute morbide ombreggiature, le diverse durezze della materia, che, difatti, sul cuore del girasole, sulla scorza dei pini, sulla coltre della neve assumono una vibrazione organica intensa.
La luce di Rembrandt, ho detto in altra occasione che su queste pagine spiove blanda e trafigge i petali dei fiori, le trecce del cestello, la neve sui tetti e sui monti lontani e porge col suo raggiante percorso il saluto di gentilezza di Barbisan; dalla sua terra, dal suo silenzio, dalla sua beata solitudine.
(in Le quattro stagioni, presentazione alla Cartella edita dalla Galleria San Giorgio, Mestre, 1976)