La riconosciuta eccellenza di Armando Donna nel panorama dell'incisione italiana della seconda metà dello scorso secolo è certamente legata innanzitutto all'eccezionale coerenza e nello stesso tempo primaria purezza del suo rapporto diretto con la lastra incisoria, simboleggiato dalla scelta del bulino, preziosa, rara e ascetica nella contemporaneità, intatta e intangibile lungo quasi cinquantanni, da -Cavalcavia con lampione- del 1948 all'ultima e simbolica immagine del 1994, -Il poeta se ne va-, con l'abbinamento all'acquatinta dal 1959 per più morbida effusione pittorica fra luce e penombra e la preziosità magica del colore dal 1968, pubblicizzata nella mostra alla «Dantesca » di Torino dal 1970.
Il perfetto corrispettivo di questa indefettibile purezza del segno inciso e del suo reticolo d'ombra, persino più essenziale della sua radice morandiana, è la parallela essenzialità ritmica e strutturale delle sue forme, assolutamente costante lungo il percorso pensoso e sottile, dalle sintesi nel primo decennio di lavoro dell'ambiente urbano e naturale di casa alla progressiva meditazione sull'immaginario e sul cosmico, formalmente metafisica e surreale ma intrinsecamente poetica, lirica, onirica.
La matrice originaria di quelle prime sintesi nella quiete della vecchia Vercelli, sulle rive bianche di sabbia e di ghiaia della Sesia, in Valsesia, in cui qualche sommesso aneddoto, (-Monache- del 1951, Organetto di Barberia- e -Carovana di nomadi- del 1952) e qualche nudità di vicoli e di muretti ha fatto evocare il nome di Rosai, ma le -Fabbriche- del 1950 sono semmai sironia-ne, è senza dubbio omaggio all'ordine novecentesco, del tutto legittimo per un nato negli anni ' 10 con una vocazione intrinseca ad una poetica alla Valéry e ad una poesia intimistica ma asciutta affine all'ermetismo. (Quasimodo spesso evocato dalla critica, andrebbe bene anche Montale). Non a caso gli omaggi iniziali a Morandi evocano il metafisico dei primi anni '20.
Ma la forza del rigore di Donna nella costanza e fedeltà nell'esercizio diuturno su un unico linguaggio formale lungo cinquantanni consiste anche nell'altra sotterranea inquieta vocazione antinaturalistica ad attingere all'espressione della magia e del mistero, innanzitutto quelli della fondamentale solitudine dell'uomo e del velo di Maja al di là della realtà apparente. L'inquietudine è prima formale, in giochi di ambiguità quasi da Escher, ma venati di populismo, -Cortile- e -Le tane- del 1953, poi in memorie di sfaccettature cubofuturiste nel 1955, -Paesaggio assolato-, -Paesaggio-, -Case-, fino alla prima stilizzazione assoluta, -Garofani- del 1956, prototipo formale quanto concettuale per tutto il quarantennio successivo.
A questo punto, verso la fine degli anni '50, la raggiunta padronanza totale del gioco di ombre e luci del bulino porta alla perfezione l'astrazione magica del repertorio iniziale nelle nature morte del 1947 o nella riflessione metaforica sulla solitudine spoglia di ogni traccia ane-dottica, come in -Attesa- e in -Ragazza e grammofono- del 1958. Sono le immediate premesse per l'esordio fra 1959 e 1960 del definitivo immaginario onirico e surreale, significato anche, nella costante interazione fra forma grafica e simbologia concettuale, dal risultato irrealistico della preziosa granitura di luce dell'acquatinta e della nuova lirica tematica non timorosa di echi letterari: -Il cortile dei sogni- del 1959, -La piana del silenzio- e -Coppia nella piana delsilenzio- del I960 presentano spazi infiniti, forme edilizie elementari ridotte a puri piani astratti di ombre e di luci, alberi lampioni profili umani ridoni a puri segni, segmenti sotto cieli neri o baluginanti albe di altri mondi, con la circonferenza perfetta di un misterioso sole/luna. Da qui si dipana il discorso primario lungo gli anni '60, con i ricorrenti temi-immagini dell'oblio, della solitudine, del silenzio, di un mondo onirico e magico della luna, dove accanto a qualche comparsa elegante di stregate apparizioni femminili, domina una sottile aura estremo orientale. Alla fine del decennio, tutto questo si concreta nell'apparizione di altri mondi, spazi misterici di fantasia fantascientifica riscattata dal lirismo dell'infinito: -Incantesimo- e -La spiaggia dei segreti- del 1968, con un desiderio di distacco (non di fuga) da ogni violenza e volgarità del mondo circostante.
Ancora una volta, il diapason di raffinatezza «orientalisant» della comparsa del colore ad acquatinta e bulino non è mero espediente ed esperienza tecnica ma espressione puramente lirica e fantastica di quel desiderio: -Incanto- del 1969, -Sole-magico- e -La grande luna- del 1970, -Alba di speranza- del 1972. Si affacciano senza complessi echi surrealisti, come in -Desolazione- del 1972, memorie metafìsiche, da -Garofani- del 1973 fino a -La casa dei ricordi- del 1988, riprese surreali delle esperienze di natura morta, a partire da -Fragili meraviglie- del 1974. Negli anni '80 l'immaginario si fa più ricco e complesso, evoca simboli della memoria. -Magica armonia- e -Teneri ricordi- del 1983, affronta la metafora surreale con -Sospetto- del 1985. Diventa esplicito l'omaggio ai poeti, -Luna e melagrane- a Valéry nel 1984, -Solitudine- a Rilke nel 1986, -Alta solitudine- a Leopardi nel 1987. Sono dunque un perfetto coronamento spirituale e intellettuale le due lastre finali del 1994, -La vita si consuma- e -Il poeta se ne va-, omaggio a Giorgio Caproni.