Non è facile
fissare in pochi termini efficaci il "senso" della pittura di Morlotti.
È infatti, il suo caso, uno dei pochissimi, nello screziato panorama dell'arte contemporanea, in cui il consenso caldissimo del pubblico — e sia pure del pubblico qualificato — va decisamente oltre la perplessità, e, quasi si sarebbe tentati di dire, le contraddizioni, della critica: molto più concorde nell'avallare quel consenso che non nel giustificarlo con opportune ragioni.
Eppure non è certo mancata a Morlotti l'attenzione dei migliori ingegni in questo campo. Da Cruciani a Carrieri, da Testori ad Arcangeli, da Valsecchi a Volpe, da Seborga a Ballo (per non citare che gli scrittori monograficamente impegnati a trattarne) le definizioni o gli assaggi di analisi, spesso assai acuti, sono numerosi.
Ma è facile accorgersi che si tratta più di rilevare i termini problematici di una questione che di proporne soluzioni. Né intendiamo proporne noi: piuttosto contribuire a riportare al nocciolo i termini in cui il problema si pone.
Al centro di tutta la questione vi è un fatto perentorio che colpisce anche l'osservatore meno scaltrito: Morlotti è un pittore "moderno", in tutta la divulgata misura del termine, e tuttavia è anche un pittore della natura direttamente colta e cordialmente amata, cioè un pittore che vive in un dimensione che sembra negare il punto fondamentale dell'arte moderna: il suo carattere intellettualistico e provocatorio, I' "avanguardismo", lo "sperimentalismo" che gli appaiono connaturati. Dunque un "ritorno alla natura"? 0 meglio, un ritorno a un modo cordiale e umano, a una partecipazione affettuosa alle apparenze, naturali e perenni insieme, del cielo e delle piante, dei fiori e degli steli? È un'onesta franchezza nel rigettare la lezione di Picasso, o nel superarla, per richiamarsi senza perplessità al clima lombardo della propria formazione? È un'interpretazione che — con sfumature diverse — è stata spesso avanzata. Sul piano della cultura le definizioni di Morioni "lombardo" non mancano (Marchiori, Valsecchi).
In quello spicciolo dei pettegolezzi “d'atelier” chi non ricorda i frizzi dei pittori sul collega mortalmente caduto in "peccato di Gola"? E come ogni' interpretazione suggerita dallo stato delle cose, anche questa contiene una parte di vero.
Ma come spiegare allora che il "lombardismo", il "nuovo naturalismo" di Morlotti non si riducano a un fatto di inerte recupero culturale, a una dimissione o reazione, che Morlotti rimanga un pittore "moderno" anzi un pittore "d'avanguardia"? Un elemento discriminatorio su cattivo o buono "ritorno alla natura" o alla "tradizione lombarda" si è creduto di averlo trovato nella "materia" dei quadri morlottiani, quella materia incandescente e preziosa, carica sino all'eccesso, e vibrante di intima vita, una materia che avrebbe potuto consentire un'esegesi "materiologica" di Morlotti, come un giovane critico l'aveva tentata di Dubuffet.
E appunto questo nome fu ripetuto insieme a quelli di Pollock e di De Kooning tra gli altri. Ma si tratta di un accostamento persuasivo solo nel senso di una giunzione dialettica, per “coincidentia oppositorum”, colla speranza di farne scaturire la scintilla illuminatrice. Insomma, dopo essere andati troppo oltre nel ridurre il senso della pittura di Morlotti alla dimensione "naturalistica" e "lombarda", si è cercato di equilibrare il discorso critico ricorrendo all'eccesso opposto: assimilando il caso Morlotti a quello dei pittori citati.
Ma dov'è in Morlotti lo spirito ironico, la programmazione dell'osceno e dell'orrido, l'eredità del “pére Ubu”, che è tanta parte del mondo di Dubuffet? E dove la furia iconoclastica, la cancellatrice tempesta gestuale di Pollock con il suo preciso significato di eversione del figurativo portato alle estreme conseguenze ? La sua stagione di protesta Morlotti l'aveva già conclusa, in chiave picassiana, non informale, in un tempo precedente.
Restava, ripeto, solo il margine contestuale della materia.
Ma questa materia è intenzionata da Morlotti in modo ben diverso da quello dei pittori citati. Vi è in lui quel rifiuto di guardare il mondo con occhio ironico o di protesta. La protesta che ebbe nel Morlotti di una fase precedente tanto peso anche umano e ideologico, è stata non rifiutata ma risolta nella contemplazione amorosa, nella lirica. E la materia ha avuto perciò in lui funzione opposta a quella che ha in un Dubuffet o in un De Kooning. Non violenta col suo aggrumarsi e sovrapporsi in spessori, in croste preziose una presupposta pacatezza d'immagine per travolgerla o stravolgerla nell'irruenza del gesto blasfemo, ma si deposita in lente stratificazioni a restituire l'intima organicità, lo spessore sensuale della vita al suo mondo d'erbe, di sterpi, di vegetali offerti nell'immediatezza del mezzo o nella "carrellata lunga" del paesaggio.
Fiori, appunto, e paesaggi — e anche qualche figura — compaiono in questa mostra di cose degli ultimi anni, con rinnovata e pur fedele intensità di realizzazione.
L'aderenza della pittura di Morlotti a una situazione autobiografica e locale, la sua capacità di far del quadro quasi pagina di diario di un momento determinato della propria peregrinazione di uomo, e determinato come scoperta, affetto e memoria di un luogo, di un'occasione — in questi quadri annotanti il suo soggiorno di Bordighera si fissa e si realizza in una ferma saldezza d'occhio e di cuore: pagina di diario sì, dunque atteggiamento — se si vuole romantico, ma calato e
fissato in una certezza di scelte coloristiche e materiche che ne distaccano le sigle da ogni abbandono allo sfogo, da ogni concessione sentimentale, per realizzare la misura ferma e intensa, la "classicità" dell'opera obiettivata.
E basterebbe — in queste sale — fermare l'attenzione su opere come "Bordighera" (1964) col suo smalto intenso sino a una araldica semplificazione sottolineata da quegli steli ridotti a cadenze curvilinee e scattanti (anche Morlotti non è — forse — insensibile al fascino del recuperato interesse per I' "Art Nouveau") ? basterebbe il "Nudo" (1962) a dirci con quale forza definitiva — al di là della dialettica di natura e di stile — può approdare un'opera di Morlotti.
Abbiamo parlato di un "Nudo". I nudi di Morlotti sono un punto difficoltoso per critica. In essi, nel loro sprezzo per ogni oggettiva ghiottoneria di visione o di resa realistica, sembra infatti ancora rivivere il Morlotti provocatore ed eversivo delle immagini taurine o umane di una diversa stagione: il Morlotti, in una parola non "naturalista" e non "lombardo". È una difficoltà che va affrontata, perché forse in essa si può trovare una chiave per l'intera comprensione della sua opera.
Dunque Morlotti non ha rinunciato a nulla: non all'iconoclastia sperimentale, non alla provocazione avanguardistica ? Un problema che non pretenderemo certo di risolvere e neppure impostare in questi brevi appunti. Ma che vorremmo richiamare ad altri e a noi stessi come avvertimento, come delazione, come stimolo a non impigrirci nell'illusione di credere di poter-chiudere il discorso su Morlotti in una troppo semplicistica formula.
E allora, come indice di una possibile problematica aperta, ci ripeteremo: tempo e luogo propizi offrono alla fantasia di Morlotti l'occasione di un recupero vitale spinto sino al margine della commozione "pànica" per la vita organica delle piante, per la gioia spaziata del "paesaggio" tradizionale.
Ma la serenità è della natura confortatrice, orizzonte di pace che vive solo nell'urto dialettico colla violenza peccaminosa o riscattante della responsabilità e dell'azione umana: chi dalla natura emerge come specie animale o come individuo umano fa soffrire e soffre, fa subire e subisce violenza e sopruso. È allora occasione, al pittore che indaga, d'immagini tanto esasperate o larvali quanto l'orizzonte pacificatore della natura lo è di spettacoli fermi nella pacatezza di un'emozione riscattata.
E l'impegno dell'uomo Morlotti — uomo perché artista — volta a volta si esalta nella polarità di questo destino di liricità e di tragicità. Con quale forza di opere persuase e persuasive, ciascuno qui può intendere col solo guardare.