Scomparso Romano Levi: era l’angelo della grappa
Queste colline piemontesi tra le Bormide e il Tanaro hanno perso una traccia gentile, un orma umana che ne coglieva ed assecondava la rustica dolcezza: Romano Levi, il grappaiol’angelico, come lo definì l’immaginifico Veronelli, s’è addormentato, dopo 78 anni, accanto alle sue grappe, ai suoi alambicchi, alle sue donne selvatiche di Langa. Un dolce profumo di vinacce fuori stagione -quelle che, una volta torchiate, stivava sotterra per utilizzarle poi come combustibile ecologico- impigra nell’aria dolce di primavera, sotto un sole mite come il suo volto, seguitandolo verso il praticello del camposanto. Ripercorro questi suoi tratturi, questi suoi filari di Neive (da Alba un tiro), col suo amico di sempre, Adriano Benzi; e due parole, presenze o numi, accompagnano discorsi e pensieri, svolano avanti agli occhi umidi, appiccicate all’erba del prato e alle ragnatele della distilleria: innocenza e poesia.
La sua storia: già l’anagrafe è poesia, lieta e tragica, come la vita. Tre fratelli, padre e zii, che lasciano la Valtellina, un atavico mestiere sulle spalle: grappaiolo ambulante, e quel signum sulle spalle: Levi. Uno zio si stabilisce ad Aosta, l’altro a Cortemilia, il padre a Neive appunto, e l’alambicco ambulante diviene distilleria; le vinacce, lì, sono le migliori d’Italia e la ferrovia è a due passi: atavico fiuto commerciale. Serafino Levi sposa una donna del posto; muore presto, seguito a breve dalla moglie, falciata da una raffica di aereo sconosciuto sul finire della guerra. Due ragazzi, Romano e Lidia, si ritrovano orfani con una distilleria di cui non conoscono che i misteriosi profumi. Romano, 17 anni, interrompe gli studi, senza rancore, pieno sì di stupore avvilito per quel mondo ingiusto e mendace, per quel futuro lubrico di cui già aveva divinato traccia pochi anni prima quando, da chierichetto, aveva scoperto che l’oro dei candelabri dell’altare ricopriva una soltanto delle tre facce, quella che si mostrava ai fedeli: il resto era scuro, ingrommato di bolo e di pece. Due, tre dipendenti sono loro accanto, affettuosi; nasce così l’accorato bisogno di rimanere uniti, di far da sè, per quel che si può. La grappa dei Levi diventa così la grappa dei ferrovieri della vicina stazione; di mano in mano la commerciano in tutt’Italia; la fidata Sabina, aiutante tuttofare, scopre un giorno, dimenticata nel deposito sigillato dalla finanza, una botticella il cui limpido liquore ha assorbito con gli anni dalle doghe di castagno un oscuro colore di bosco: buttarla no, scherziamo!; ma con quel colore non vale certo un’etichetta stampata. Un quadratino di carta, mani tremolanti sgorbiano: “Grappa nera dimenticata”. È una sfida, una follia, qualcuno dubita se ne potrà vendere una sola bottiglia. E invece, quel “fatto a mano” dell’etichetta incontra simpatia, rimanda a una qualità irripetibile del prodotto: tutto vero, tutto così, fino ad oggi, non una bottiglia uguale all’altra.
Romano, che non è enologo, che all’alambicco si sente legato più dai sentimenti che dal mestiere raffinato dei distillatori, scorge nell’episodio la guida del suo destino, la faccia d’oro del candelabro: alle vinacce e al vecchio alambicco murato pensano Francesco e Fiore, lui scruta; il controluce di una candela gli svela messaggi arcani di spiriti alcoolici, il profumo delle vinacce quello sì lo sa distinguere e lo guida all’eccellenza tra mille: così, d’intuito, per gusto poetico e per sentimento terragno avanti tutto. E allora, è lui che disegna con china e pennino le sue etichette: sì, perchè alla scritta olografa si aggiunge ora tutta una spiritosa discendenza di figurine di fiori, di voli di rondini, di campanili e di donne: le affascinanti “donne selvatiche che scavalicano le colline”; tutte (molte con dedica sorridente) di sua mano. Famosa tra tante quella per il suo fido aiutante/amico: “A Fiore di Marcorino, ardente presidente della chiesa di san Rocco”; più soffuso e schivo, altrove, il brivido schietto della poesia: “Ad Adriano e Rosalba, augurando fiori e frutti”. Fu questo rifiuto del prodotto standard, quest’anarchia poetica a fulminare il Gigi Veronelli, a fare d’acchito di Romano Levi uno dei suoi miti. Un giorno un funzionario della Rinascente gli fa visita e gli commissiona 1000 bottiglie; Romano lo accompagna compiaciuto e compiacente al cancello; poco dopo arriva a Milano questa lettera: “Cara Rinascente, sei bottiglie sono pronte; altre sei lo saranno tra un mese; il resto non so”. Questo è l’uomo, lo stesso che riceve tra l’imbarazzato e il divertito, le periodiche visite del Gotha internazionale; tra i tanti, per i club svizzeri di Lotus e Ferrari, una visita ogni anno a Neive è un must imprescindibile: lui, più attento a non distruggere la tela di un ragno che a dar sfogo a compiacimenti vanagloriosi, si preoccupa di coprire di ceste le file di formiche che s’intrecciano sul cortile, a difenderle da quei voraci pneumatici. Gentilezza ed arguzia si mescolano al trascorrere dei giorni operosi: ha accanto, con la sorella che ingentilisce di fiori e aromi selvatici le bottiglie delle “donne selvatiche”, un corteggio di care bestiole, tra cui una troupe di gattini, tutti col loro nome allusivo; il capo è Vicebrigadiere, malizioso rimando al “caporale” di Totò. Nel consegnare ad un cliente tedesco la sua bottiglia, scopre oltre il vetro un moschino: vuole cambiarla, il cliente non permette: nasce così una serie di bottiglie di Grappa col moschino (che non c’è).
Si meritarono una dedica, accanto al contadino a all’amico, Romiti e il Papa, Bocelli e i Pooh; Facchinetti era al suo funerale. Avvolgeva le sue bottiglie, sempre, nei fogli del Sole-24 ore, intonsi: gli piacevano quella carta colorata e l’assenza di figure. Quando si dice: poesia.
Riccardo Brondolo
La Voce Rupubblicana
martedì 13 maggio 2008