QUASI UN RITRATTO
Una vita in souplesse, quella di Enrico Paulucci marchese elle Roncole. Una giovinezza serena, condotta tra l'invito paterno ad una professione "seria", per cui l'iscrizione all'Università, ed il desiderio del rampollo di seguire invece gli istinti che lo spingevano all'avventura artistica: "[...] a Torino son cresciuto e ho fatto gli studi, anche troppi forse, sino alle lauree in economia e giurisprudenza, pure con una divagazione giovanile di calciatore nelle file juventinc. Il fatto era che mio padre, Paolo Paulucci delle Roncole, discendente da una antica famiglia emiliana, aiutante di campo di re Umberto I (e peraltro uomo di cultura umanistica e lettore eccezionale di migliaia di volumi di ogni genere) non vedeva di buon occhio le inclinazioni pittoriche del suo ultimogenito. Non mi restava altra via di uscita, dunque, che prolungare gli studi e accumulare lauree, cosa che mi permetteva di dipingere molte ore del giorno e interi mesi dell'anno, e di fare le mie prime prove nelle esposizioni locali e soprattutto nell'ambiente artistico, assai vivo e stimolante allora, di Torino" (Frammento autobiografico, circa 1960, da "Enrico Paulucci", cat. Mostra Regione Piemonte, Torino).
La prima presenza documentata delle opere del giovane pittore (aveva 22 anni) è il catalogo della "Quadriennale" di Torino del 1923. Pochi anni dopo, in una spigliata e fresca pagina dal titolo "Cronache della pittura. Un giovane", l'anonimo critico annota per la mostra "Vedute di Torino" della Società Fontanesi "a cui partecipano solo quei pochi che dell'arte non fanno un mestiere, ma una professione di fede, ma un ideale di bellezza": "La sua pittura aveva nello spirito una festività che non doveva poi mai più perdere. Le sue atmosfere - sicure nei rapporti - rivelavano in certe osannanti chiarità l'intima e contenuta passione da cui eran nate. Solo un eccellente spirito osservatore poteva comprendere il paesaggio con tanta fervida finezza". Paulucci intanto ha già partecipato alle esposizioni annuali della Società Promotrice delle Belle Arti cittadina, è invitato alla "Mostra futurista" all'Associazione della Stampa, torna alla Quadriennale, va alle Esposizioni Nazionali di Genova e Milano, e, nell'ottobre 1928 approda alla XVI Biennale internazionale d'arte di Venezia.
A Torino, in quegli anni, erano ancora in attività Grosso e Bistolfi, Rubino e Reviglione, Maggi e Bosia. Ne "Il Vangelo della Pittura" (Torino, 1921) Enrico Thovez scrive: "C'è un vento di rivoluzione tra i giovani che si volgono oggi alle arti figurative. I giovani affermano che l'arte del passato, del passato di ieri, non basta più alla loro visione, e cercano le leggi e le formale di un'ar te nuova". E cerca di imbastire una ragione di metodo ed estetica per contrapporre la tradizio-ne ad un nuovo che cambia rapido come la moda. "Quando in Italia i giovani cercano una nuova formola estetica, la vanno a prendere bella e fatta a Parigi, dove è già vecchia di dieci anni. Proprio come gli abiti, ma con maggior ritardo. I negozianti delle mode artistiche sono obbligati, come quelli delle mode vestiarie, a cercare sempre nuovi figurini... Non c'è una sola, fra le mode este-tiche che ci sono giunte di Trancia in questi ultimi decenni: impressionismo, luminismo, divisio-nismo, sintetismo, che non fosse soppannata dagli interessi di un negoziante". Annota Renzo Guasco, arrivato a Torino da Biella nel 1925: "È difficile oggi immaginare che nel 1930 a Torino la pittura degli Impressionisti e dei Postimpressionisti fosse conosciuta da pochissimi, non solamente sugli originali, ma nemmeno sulle riproduzioni".
A Parigi erano andati Menzio e Chessa; vi era passato Spazzapan, o almeno così raccontava, prima di stabilirsi a Torino nel '28. Da Parigi va e viene Lionello Venturi, che sotto la Mole ha la cattedra di Storia dell'Arte, e che porta con sé Riccardo Gualino (suoi i primi quadri di Modigliani in Italia, sette in tutto e dopo la dispersione della sua collezione tutti tornati Oltralpe), fulcro con Felice Casorati, in città dal 1918 dopo la morte del padre, della nascente intellighenzia subalpina.
Anche Paulucci si reca a Parigi, per un soggiorno che fu determinante nelle sue scelte, nel 1928, in occasione della prima mostra degli italiani nella capitale transalpina, al Salon de l'Escalier cui partecipa anche Menzio, con cui condivide l'ospitalità "in un vecchio studio in legno di rue Falguière". Ed il tuffo nella Ville Lumière sente la necessità di farlo anche Carlo Levi. Non è quin-di un caso se il gruppetto che espone insieme l'anno dopo sotto l'egida dei "Sei pittori di Torino" raccoglie artisti (con Chessa, Levi, Menzio e Paulucci anche Jessie Boswell che arriva da Londra e Nicola Galante, amico di Gobetti, da tempo in rapporti con Soffici, che ne ospita le xilografie su "Lacerba", e con "Il Selvaggio" di Maccari) che si rivolgono alla Francia non per carpire un momento di notorietà accanto alle avanguardie, bensì per confermare delle idee già acquisite e cementarle con la sicurezza che, all'insegna di Manet e di Cézanne (T "Olimpia" di Manet figura sul catalogo della prima mostra, alla galleria Guglielmi di piazza Castello ed un autoritratto di Cézanne su quello della seconda), il problema colore-luce dovesse prevalere su ogni pretestuosa
polemica usa a scambiare la parte per il tutto ed a considerare verità secondarie e contingenti come base di peregrine estetiche, tanto intransigenti quanto aleatorie e squilibrate.
'L'insegnamento dei francesi per i Sei - annota Guasco - consistette soprattutto nell'invito a rompere gli schemi troppo rigidi, a squarciare i fondali e le prospettive casoratiane, a far circolare dell'aria".
Quest'aria "nuova" verrà poi bloccata a Chessa dalla prematura scomparsa (si era ammalato di tubercolosi), si fisserà in una staticità concettuale a mezzo fra il primitivismo e la metafisica in Galante, sfocerà nella pennellata fortemente intrisa di espressionismo per Levi, si addenserà di intimismo borghese nella Boswell. Rimarrà ancora fresca per Menzio, che si farà più composto nella maturità, ma è in Paulucci che conserverà una fragranza ed una lievità, eccezzionale nei guazzi (di Roma, a Malta e sulla Riviera ligure), in cui senti l'odore di una strada osa, la brezza della spiaggia, il profumo dei balsami delle bagnanti a discorrere sul dehors o passeggio tra le palme del lungomare, l'umidiccio della neve sui marciapiedi, il freddo pungente della nebbia che ti entra nelle ossa quando sali per il Monte dei Cappuccini, La sua tavolozza si fissa in colori ora splendenti ora pastellosi, lievi ed aciduli, rosati e vermigli, viola, aranci ed azzurri, gialli e verdi; i lampi di Matisse ed i lucori di Derain, la stesura piana di Braque e la prospettiva svirgolata di Cézanne, la nitidezza di Dufy, il tocco angelico di de Pisis e un pizzico ancora della polvere vellutata di Felice Carena, un una sintesi di spazio e di luce, dove oggetti e colline, vele ed alberi galleggiano su superfici nuvoleggianti, annotate di macchie, ora d'aria ora di cielo. Con un dono innato: la leggerezza, l'impalpabilità, l'ironia, l'apparente disordine del volo di una farfalla o di un cardellino, che riassumono in una purezza quasi astratta una summa di sapienza antica, di gioia equilibrata, di ammicchi al dandysmo e lo snob. Come in un canto, anzi un fischiettare, un cinguettare libero ed immediato. Per arrivare infine alla lirica semplicità di un'emozione, spontanea e "naturale", attraverso una pittura che non ragiona, non complica, non discute, non decide, non illude. Dove il vero diventa verisimile e si cerca soltanto di comunicare delle sensazioni, delle ipotesi, uno stato d'animo, un'armonia. "I mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano" (Giacomo Leopardi, "Zibaldone").
Non è, Paulucci, pittore fermo. Neppure identificabile con un luogo od una situazione. Sa piuttosto di quel nomadismo intellettuale che per altre latitudini non riesce a fissare in uno spazio definito Chagall e Pasolini, Visconti e Duchamp, Kandinskij e Fellini, Gadda e Busoni. Il suo mondo viaggia con lui, le sue radici traslocano ed attecchiscono rapidamente in ogni nuova occasione: Torino, Roma, Rapallo restano situazioni straordinariamente consimili per una personalità caratterizzata da una forza portentosa, capace di neutralizzare gli influssi esterni piegandoli e temperandoli in funzione di un unico scopo. Se stesso. Nella sua arte, nel suo sogno, nel suo ideale. Indenne anche dai miti che in quegli anni avrebbero potuto coinvolgerlo nell'attiva adesione all'una o l'altra ideologia imperante. Che rifiutò e cui si oppose per indole, osteggiando ogni pretesa di chi cercasse di limitare la libertà piegando la sua dignità di uomo. I frequenti soggiorni a Roma contribuiscono negli Anni 30 a crescere la sua tavolozza di toni cromatici caldi, di compattare le pennellate, di strutturare scenograficamente le composizioni: "Dopo Londra lo rivedemmo a Roma alla Quadriennale del 1935. Certamente quell'esposizione, tratta fuori dall'eternità in cui gli inesperti e gli impazienti vorrebbero vedere ogni mostra grande e piccola, fu importante per molti pittori. Alcuni crollarono fragorosamente; altri addirittura trionfarono; altri ancora vennero a trovarsi nelle più strane posizioni. Paulucci fu uno di quelli che, ce ne accorgemmo subito, stava senza vertigini, l'occhio limpido e l'animo tranquillo" (Alberto Moravia, dalla presentazione della personale alla Galleria della Cometa, Roma, 1938). Spesso nei ritratti gli capita di ripassare le linee, di ritentare il colore, di ispessire la pasta, di affocare i toni. Si notano infatti nella stesura, specie dei paesaggi, interferenze cromatiche più intense che arrivano qua e là a turbare con pensose introspezioni la scorribanda delle linee
matissiane, offuscando la serenità del gioco delle forme e dei colori: "Son di quel tempo tutta una serie di figure, paesi e nature morte in cui un impianto vagamente cézanniano mi era suggerito anche dalla scoperta di certe vallette liguri simili a quelle dipinte dal maestro di Aix". E negli anni del dopoguerra un ulteriore momento di coscienza di antitetiche ondate neoespres-sioniste ed informali, e la diatriba fra astrattismo e realismo socialista, lo coinvolgono in un momentaneo abbandono dell'istintivo dialogo forma-colore per portarlo ad una gamma di toni chiari sorretti da gabbie e da impalcature in cui fìssa fiabeschi paesaggi marini e borghi costieri, velature affastellate e carruggi arditi, paranze allineate ed olivi sferzati dal libeccio. E una pittura che si regge sul timbro, sul rapporto cadenzato di linee rette e curve, sul colore e la sua mancanza, su una musica sincopata che lampeggia frammenti di realtà in un caleidoscopio di illusioni ottiche. In una inquietudine che tocca anche la materia del colore, nella ricerca, attraverso la stesura di zone grevi e dense, di un contatto anche fisico con la natura rappresentata. "I primi segni di questo mutamento sono avvertibili dopo il 1945, quando l'Italia artistica travolse ogni barriera provinciale, volgendosi all'Europa, per riscattarsi e per riconoscersi. Anche Paulucci, senza tradire se stesso, iniziò da quella crisi comune un processo di revisione e di approfondimento che le opere odierne rivelano concluso in una nuova e più matura sintesi pittorica. [. „J Paulucci ha rielaborato l'impressione immediata dal vero col necessario distacco della memoria: e il metodo delle pezzature a intarsio è stato il mezzo più proprio a frenare la facilità della pennellata e a ordire la trama di una vera composizione, in cui ogni tono è al suo posto, controllato da una seria disciplina formale" (Giuseppe Marchiori, dalla presentazione per la sala personale alla XXVII Biennale di Venezia, 1954).
Soltanto con la serenità di questo rapporto, che ritrova (mi sembra importante tutto questo anche per chi, in Accademia, guardava a lui come ad un punto fermo ed incrollabile di riferimenti positivi, apprezzandone il sorriso sempre pronto ed il dialogo mai negato anche nel confronto con chi intendeva fortemente distruggere demandando al caso la possibilità fortuita della ricostruzione) in una pittura che nella spontaneità del gesto riprende, attualizzandola, l'originale istintiva relazione forma-colore, Paulucci prepara la lunga maturità espressiva. Bene gli riconosce questo merito Luciano Anceschi quando, per la mostra romana alla Galleria del Vantaggio scrive: "Un linguaggio nuovo con i suoi oggetti, il suo colore: questa è per la pittura oggi forse una strada necessaria. In ogni modo, se per questa strada si sono incontrati, intanto, alcuni risultati eccellenti, certo, comunque, è il seguente: che - fatto rarissimo in quest'ora - la pittura di Enrico Paulucci è, per chi la vede, un impulso di vita".
In effetti anche nei decenni successivi (Enrico Paulucci muore novantottenne nel 1999; ha lavorato fino all'ultimo, nonostante i seri problemi di salute non ne abbiano più potuto confortare il desiderio di vitale attività) non vi sono state voci discordi nell'analisi della sua opera. I vari accomodamenti od approfondimenti sulla sua tecnica e sulla sua poetica sono stati compiuti su basi "inattaccabili", fondate nel tempo ed accomunate da una sostanziale lettura di apprezzamento, aliena spesso da ricerche ed annotazioni sulle scelte culturali che ne hanno per tutto il corso della vita determinato le intuizioni stilistiche. Egli stesso non volle mai approfondire quelle "felici improvvisazioni" con cui Italo Cremona nel 1929 definì "le sue opere assai esperte nonostante la grazia lieve".
Accettando (ma auspicando tuttavia una indagine accurata, che sarebbe quanto mai interessante, ed allo stesso tempo vantaggiosa per ribadire quanto di intelligenza e di cultura si nasconda sotto il dandyzzante savoir faire dell'artista, e la "grazia e facilità" che illudono la sua opera) la tesi di Piergiorgio Dragone: "Sempre più di frequente si nota infatti il riproporsi di presentazioni stilate da poeti e letterati, quasi che Paulucci, affermato e tutto dedito alla sua pittura professionale, preferisse ormai evitare di restare nella mischia rissosa dei pittori ed ancor più dei critici, affidando piuttosto il commento dei propri luminosi lavori a delle penne più liriche che esegetiche", mi piace concludere, facendole mie, con le parole di Alfonso Gatto, scritte per la mostra alla Galleria Santacroce di Firenze nel 1973.
Gianfranco Schialvino