Franco Fanelli
Francesco Franco e la critica: una traccia
Lucidità progettuale, padronanza dello spazio percettivo e virtuale, razionalità visiva e rigore operativo, ricca filologia come base e sostrato i della costruzione del segno: la letteratura critica sull'opera di Francesco ! Franco rimarca con insistenza le peculiarità del modo proprio dell'inciso- 1 re torinese; emerge in più, in ognuno degli interventi susseguitisi, comun < denominatore della fisionomia critica di Franco, la sua assoluta singola- 1 rità nel panorama contemporaneo, come risultato di una ricerca che risa- < le alle più sostanziali radici del linguaggio incisorio. ; Nota già nel '62 quest'ultimo ma, s'è detto, fondamentale aspetto di i Franco, Albino Galvano nell'introduzione al catalogo della XXXI Bien- i naie di Venezia: lo fa non scindendone una vocazione che traspare, e nel i corso degli anni si afferma con forza, nell'intransigenza dell'«educatore» manifestatasi nella lunga attività didattica di Franco presso la cattedra di Tecniche dell'Incisione dell'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Intransigenza che in studio, a fronte del primo momento operativo, sconfina in un processo di spoliazione e sublimazione del gesto, del segno e delle calibrate opzioni materiche: essenzialità che lo stesso Galvano riconduce all'«educazione casoratiana» di Franco, così come ad essa il critico riporta l'aspirazione alle «cadenze lineari»1. Essenzialità e intransigenza che vent'anni dopo Giuseppe Mantovani, peraltro riappellandosi al testo di Galvano, rilegge in chiave etica, alla luce della ritualità laica e quotidiana dell'esercizio: «Esercitare la mano, l'occhio, la memoria, l'ingegno, ecc.; esercitarsi, applicarsi sistematicamente al fine di ottenere e mantenere controllo di sé, dei propri mezzi; educazione propedeutica, allenamento, pratica iterativa a misura di modello (...). Esercizi spirituali, esercizi di respirazione: ricordo che spirito e anima annodarono fisiologia e religione, etica ed estetica; esercizio come ricerca dell'armonia di "anima come idea del corpo" e "corpo come immagine dell'anima"2. Tra i più pertinenti e suggestivi richiami provenienti dalla lunga esegesi proposta da Mantovani per l'opera di Franco è la citazione, nel medesimo testo, delle osservazioni di Pavel Florenskij sull'incisione, là dove il teologo, filosofo e matematico russo contrappone, in un'avvincente osmosi tra mistica della creatività artistica e risultanze tecniche, l'incisione «protestante», di più «autentica linea» e pertanto scevra da onomato-pee pittoriche, a quella sviluppatasi in ambito cattolico, «dai tratti grassi che imitano la pennellata del colore a olio»: «L'autentica linea dell'incisione distingue Florenskij — è più astratta, non ha grassezza come non ha colore. In contrasto con la pennellata del colore a olio, che si sforza di diventare sensibilmente affine, se non all'oggetto rappresentato, almeno a una fetta della sua superficie, la linea dell'incisione vuole affrancarsi dall'impressione della presenza sensibile. Se la pittura a olio è una manifestazione della sensibilità, l'incisione si basa sulla razionalità, essa costruisce l'immagine degli oggetti a partire dagli elementi, senza avere con gli elementi dell'oggetto nulla in comune — a partire dalla combinazione di razionali "sì" o "no". L'incisione è lo schema dell'immagine costruito in base alle sole leggi della logica; l'identità, la contraddizione, il terzo escluso e in questo senso ha un nesso profondo con la filosofia tedesca: nei due casi il fine è di trarre ovvero dedurre schemi della realtà grazie ad alcune affermazioni e negazioni prive di realtà sia spirituale sia sensibile, cioè di creare tutto da nulla»3.
Ed è una chiave di lettura, quella preannunciata da Galvano e proseguita da Mantovani, fortemente tesa allo «svelamento mistico» nel modus operandi franchiano, che viene ripresa da Andrea Balzola in perfetta coerenza interpretativa ed alla luce di un pensiero critico neanche troppo sotterraneo radicatosi in ambito torinese. Non a caso il più completo contributo offerto da Balzola si articola sulla dualità concorde di «rito e progetto»4, in un'attenta ricostruzione del percorso tesi-antitesi-sintesi nel procedere operativo di Franco, ed alla luce di un terzetto vocale tra musica, poesia e arte visiva, che già aveva trovato straordinario momento di concretizzazione nel volume Disgregazione5.
Al di là di un versante di ricerca, quello di Balzola, riconducibile alla filosofia zen e al pensiero orientale, particolarmente efficace appare il riferimento agli appunti teorici di Franco sulla prassi esecutiva: il richiamo, ad esempio, a quel «quadrante superiore destro» e a quella «diagonale tracciata da destra verso il lato opposto nel quadrato inscritto al cerchio» che l'incisore segnala quale primissimo attimo progettuale in alcune riflessioni datate al giugno 1991. «Come sospinto dall'elemento aria, ma con una forza che cela la presenza dell'elemento fuoco — scrive Balzola — il composto segnico si espande virtualmente in alto e a destra della battuta, in uno sconfinamento ideale che diverrà progressivamente sempre più reale abolendo con il ciclo di "Disgregazione" la cornice che isola convenzionalmente la lastra stampata nel foglio bianco».
Balzola ricostruisce così l'itinerario di Franco in una sorta di progressiva ascesi da sollecitazioni alchemiche verso un'estrema purificazione e sublimazione del segno (sino all'approdo alla cifra pura: «Per Aleph» e un abbattimento dei confini sensibili (tecnologici, percettivi) e un travalicamene della settorialità disciplinare.
Non a caso, dal testo teorico di Franco già citato, Balzola riporta l'attenzione sulla «non predominanza del primo piano», utile tra l'altro alla comprensione di quanto e di come il dato sensibile e il reale interferiscano nella prassi franchiana.
Tra i primi ad affrontare questo complesso aspetto è Paolo Fossati nel testo introduttivo per una personale allestita presso la Galleria La Giostra di Asti. «Che Franco muova da circostanze reali si fa presto ad accorgersene e basterà confrontare i suoi lavori con un'idea di spazio, di paesaggio che vi presiede. Paesaggio che è anche un luogo fisico (...) è un luogo del tempo, un confronto del tempo connesso fra una circostanza odierna ed un modo di formarsi di quest'ultima nella sua pazienza di costruzione e di lenta solidificazione. Insomma un luogo, e fisico e nel tempo, non abbandonato al vuoto di un passato, in una sorta di immagine soggettiva nella sua solitudine: è un polo di confronto, di relazione e di dialogo, una sorta di sintassi su cui tessere ogni ulteriore sviluppo. E la stessa conservazione di alcuni elementi visivi ha questo senso di continuità e di modificazione, il bisogno di confrontarsi con ragioni precise per dare conto, su di esse, di un impiego del tempo fedelmente perseguito. È qui, forse, la difficoltà di leggere i suoi lavori: dove non c'è un interno e un esterno, un prima e un poi, un avanti e un dietro. Non c'è un'interiorità disgiunta dal comportamento, un linguaggio di cose da un procedimento di idee. La difficoltà (...) è di cogliere quel movimento totale, complessivo tenuto insieme con mano ferma: movimento che è poi un sentimento della totalità, della distensione per non perder nulla che si vada disponendo (...). I centri dei suoi lavori sono molti, le aperture molteplici, gli spessori mutevoli: ma tutto ciò non è registrazione, non è né passivo né avventato (...). Si tratta non di esibirli ma di penetrarli, di non vederli come finzioni ma come contenuti».
Accostabili in fondo, anche per opposizione concettuale (ma non di sostanza), queste ultime osservazioni di Fossati, a quanto scriveva Galvano nel testo già citato, sull'«autenticità della rivelazione di spirito e forme da cui sono sorte» come superamento della «romantica ricerca di effetto» anche nella fase più «nera» ed espressionista di Franco, quella a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le stesse riflessioni non sono discoste da quelle prodotte da Angelo Dragone sei anni più tardi in merito alla lontananza «da una visione contemplativa della natura» operata da Franco, che opta piuttosto per «il rapporto che nasce da una disponibilità all'indagine poeticamente sviluppata (questo sì) nell'apparente oggettivita, prima di un contorno che delle cose serba ancora memoria, poi di una situazione visiva estremamente aperta, in cui ad avere importanza (...) sono le essenziali componenti dinamiche, e il loro stesso ritmo che risponde ad un'armoniosa concezione dell'immagine». Puntualmente, Dragone risale alla sintesi tra «organico e costruttivo» come atto primo dell'indagine di Franco: «Dove "organico" sta per la concretezza di una realtà anche materica che l'artista intuisce nelle stesse leggi della crescita vitale, mentre per "costruttivo" vorrei si intendesse il processo squisitamente intellettuale e intellettivo, la cui forma tende alla propria codificazione spaziale, come ad un assoluto; ma dove "organico" traduce ancora un modo di sentire e di sentirsi partecipi alla natura, processo tipico di Einfiihlung, mentre il "costruttivo" si identifica nella condizione dell'artefice per il quale l'immagine diviene una rappresentazione concettuale che è poi il punto d'incontro tra la realtà e la coscienza, offrendo l'occasione al nascere di una forma».
Un processo che, oltre al sovvertimento delle normative prospettiche (ritorna, insistentemente utile, il testo di Florenskij sull'icona come metafisica dell'immagine e della luce), nelle lastre che potrebbero essere più marcatamente legate all'aneddotica paesaggistica porta Francesco Franco, secondo Dragone, a non essere «il topografo che descrive, ma piuttosto una sorta di topologo tutto preso dalla continuità che è riuscito ad istituire tra l'uno e l'altro spazio, tra la realtà e quella non meno reale mappa della memoria e dei sentimenti che alimenta la sua visione formale, potenziando al tempo stesso il suo spirito creativo» ed alla creazione e all'invenzione continua di cifre e strutture grafiche. Nasce quel «labirinto multiplo (...) piegato in molti modi per seguire il labirinto della materia e il labirinto della libertà dell'anima» cui «occorre una "crittografia che, insieme, enumeri la natura e decifri l'anima, veda nei ripiegamenti della materia e legga nelle pieghe dell'anima"» rinvenuta da Andreina Griseri nel saggio d'apertura del volume che accompagnava, nel 1992, la retrospettiva di Francesco Franco presso la Società Promotrice delle Belle Arti a Torino. Ed è ancora dal rapporto con il dato sensibile, dal «quadro come natura potenziale» offerto da Klee (in un testo che Fossati proponeva come incipit al contributo citato), che prende le mosse il saggio della Griseri. Il riferimento risale questa volta all'ordinamento leibnitziano dell'universo, alla «percezione e all'anima»: ai due piani comunicanti che il filosofo tedesco vedeva, quello inferiore, munito di finestre, e quello superiore chiuso come una cassa di risonanza in grado di riprodurre i suoni provenienti dal basso. Di straordinaria lucidità e suggestione, nel testo della Griseri, l'immagine della «piega» come cifra barocca estesa all'infinito, ripresa dalla rivisitazione di Leibnitz offerta da Gilles Deleuze. La «piega» risulta, in ispecie per l'ultima produzione di Franco, figura particolarmente atta ad esprimere l'estrema «coincidentia
-oppositorum» prodotta da Franco: teso, s'è detto, alla purezza di segno e gesto, sino alla dura contrazione del mezzo espressivo, l'incisore deve ricorrere, per superare i limiti oggettivi (sensibili) imposti dalla tecnica incisoria e di stampa (e, va pur detto, della falsa immagine che ci si è fatti di esse); per aspirare allo sconfinamento totale (percettivo e sostanziale), a strumenti «retorici» spiazzanti, allusivi, labirintici: dal foglio libero di «battuta», alla stessa rifondazione di una prospettiva aerea che non riflette il primo piano come dominante, in un ambito di applicazione che spazia, nota Balzola, dalla «parodia» (la «battuta», l'impronta della matrice sulla lastra, «ricostruita» e «finta» a segno) alla disgregazione e alla destabilizzazione segnica. Il tutto a compimento di quanto preannunciato, sin dal 1971, in «Crasi», un'incisione dove la «piega» era allusa sia dalla lieve variante cromatica operata sulle due lastre, sia nella netta e aerea cesura a sinistra della composizione. Detto del sostrato concettuale e tecnologico, è da segnalare come il contributo della Griseri ribadisca le radici storiche e filologiche del segno di Franco, come già estesamente anticipato nel saggio che apriva il primo di questi tre volumi dedicati all'incisore torinese: il «filo d'Arianna» scorreva allora, in ambito sei-settecentesco, dal «segno di Della Bella a quello luminoso del Tiepolo», a Callot; in ambito prettamente locale, alla tradizione iconografica del Theatrum Sabaudiae, e naturalmente a Giovenale Boetto. «Lavorando sull'antico [Franco] non ricostruisce paradigmi facili — avverte la Griseri —; se ne serve per una trasposizione di altro tipo, in una ripresa scarnificata, disinibita, e molto attuale». Ed è ancora un itinerario tra filologia e contemporaneità quello tracciato dalla Griseri per evidenziare quel «margine inedito per la veduta», tema del suo più recente contributo, qui pubblicato, sull'opera di Franco. La vitalità della «veduta» nei fogli dell'incisore è evidenziata in un percorso che spazia da Goethe, dal paesaggio quale «geologia indagata come architettura organica, una verità rivelata cara agli illuministi», alla nigredo piranesiana, così come rivisitata dalla Yourcenar e senza escludere il medianico rapporto Piransi-Eizenstein, sino agli espressionisti, a Kirchner, a Kubin, alla spazialità di Kandinskij. E a Turner, nelle atmosfere maturate durante i soggiorni nel nord-Europa.
All'essenzialità ed ai ritmi Kandinskiani di punto-linea-superficie si richiama lo stesso Pierre Case nel saggio pure in questo volume, dove lo studioso svizzero rimarca una ricchezza espressiva sgorgante da quell'estrema razionalità del vocabolario tecnico che è poi tra le peculiarità della ricerca del nostro incisore13.
Sulla tecnica come intransigente, funzionale e nel contempo colta opzione, si sono soffermati infine, nel tempo, gli interventi di Giorgio Tren-tin14, Vanni Scheiwiller15 e dello scrivente16. È il primo a notare nello «spirito del linguaggio incisorio (...) il terreno insostituibile» alla più
esauriente manifestazione di un temperamento teso «allo sforzo penetrativo e spesso drammatico nella sostanza più remota e autentica delle cose»; e insieme a rilevare come peculiare di Franco il «segno estremamente rapido e tagliente, portato a penetrare in profondità, in maniera precisa, senza sbavature né dilatazioni laterali, ottenuto mediante l'impiego del per cloruro di ferro sullo zinco, o del mordente olandese per il rame». La radicale distinzione, più volte puntualizzata dallo stesso Franco, tra l'azione dell'incidere e quella del disegnare come momenti e concetti opposti, porta poi Scheiwiller a ribadire e chiarire i due momenti sostanziali della concretizzazione dell'immagine incisa: l'elisione di materia, sulla lastra, e la restituzione dell'impronta alla carta; «Così la stampa si offre come immagine aderente all'intenzione che la origina»: e siamo nuovamente a Florenskij, all'antipittoricità, al segno-luce, o se vogliamo alla «luce scolpita» (Griseri) quale manifestazione di sublimante sottrazione.
maggio 1994
Franco Fanelli